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mercoledì 28 novembre 2007

Calcata low cost

Mi perdonino quelli, soprattutto i giovani degli anni 60 e 70, che conoscono bene Calcata. Due parole per dire che parliamo di un bellissimo borgo medievale a quaranta chilometri da Roma, costruito su roccia di tufo davanti a una spettacolare vallata boscosa. Ne ha passate tante, dall'emigrazione che l'aveva svuotato, alle storie commoventi di rifugio contro le rappresaglie naziste fino, appunto, agli anni sessanta e a seguire che ne fecero una sorta di comune “hippy” d'Italia. Artisti, figli dei fiori, girovaghi stanchi di viaggiare a un certo punto si passarono la voce di questo straordinario paesino isolato dal mondo e lì si ritrovarono, aprendo botteghe, circoli culturali, negozi di stoffe esotiche, sale dei mille tè. Andarci per caso in un piovoso sabato di novembre ha rinnovato i ricordi di una rivoluzione annusata solo da lontano ma anche il sottile disagio di vedere come il tempo macina le cose, ideali e piccole utopie private comprese. Una bandiera del “Che” sventola sempre all’ingresso del paese, i negozi alternativi ci sono ancora, le piccole terrazze per meditare sul senso della vita davanti allo strapiombo intatto sono lì. Ancora di più oggi, uscendo da Roma, dopo aver visto sfilare dal finestrino il flusso indistinto di concessionarie, centri commerciali, tintorie, sale per matrimoni, residence, palestre, solarium, ritrovarsi nel bosco a guardare Calcata che improvvisa spunta dalle rocce, fa bene al cuore e alla salute. Poi però, una volta dentro, l’atmosfera da isola felice, sarà stata anche la pioggia, lentamente scolora e lascia il posto a una malinconica messa in scena, in replica ormai da anni. L’idea libertaria ma anche al fondo un po’ egoista di ritirarsi a vivere tra simili rinunciando a sporcarsi le mani con le brutture del mondo, ora è un susseguirsi di piccolo e onesto commercio di sé stessa. E anzi, oggi, è proprio il mondo che chiede di continuarla, come l’articolo del New York Times, appuntato nelle bacheche di graziosi locali, che racconta la storia di questo rifugio dell’Etruria dove artisti e sognatori decisero di fermarsi, o i siti di compagnie aeree low cost che inseriscono Calcata tra le “pittoresche” località da visitare.
Così ci chiediamo, ora, se nella “comune” di Calcata si aprirà il dibattito sulla notizia che Viterbo, cioè la provincia cui appartiene l’arroccato borgo, avrà un suo aeroporto. Ci saranno i voli di linea e i charter che certo serviranno per offrire un’alternativa agli altri congestionati scali di Roma ma finiranno anche per catapultare ulteriori piccole e grandi carovane di turisti a visitare il paese del lontano da dove. Un bel dilemma per chi aspirava a una vita alternativa ritrovarsi sui depliant del tutto compreso.

mercoledì 21 novembre 2007

Altre italiane

Nella piccola hall dell’hotel Acropole archeologi, inviati, ingegneri, camionisti da deserto si fermano a riposare e leggere i giornali. Sono quelli che ognuno porta con sé e regala alla bacheca comune quando arriva a Khartoum, Sudan. Per cui può esserci il Financial Times di ieri, Le Monde di due giorni fa, La Repubblica che ci avevano dato in aereo, insomma, notizie non proprio freschissime ma non importa. Allora uno sfoglia i giornali e pensa all’Italia, citata solo una volta a proposito dello stop al campionato di calcio. Così gli tornano in mente gli italiani che ha incontrato qui in Africa in questi giorni e decide che si, vale la pena dedicare a loro questo biglietto perchè non hanno mai pensato di andare in televisione o su un giornale. Ne scelgo tre, capita che sono tutte e tre donne e scrivo subito il loro nome, Bianca, Gabriella e Francesca.
Bianca ha più di settant’anni e vive qui da quasi cinquanta. Quando la andiamo a trovare nella Casa delle suore comboniane ci accoglie con un sorriso come se ci conoscesse da sempre. Gli chiediamo se è difficile vivere qui e ci racconta che si, facile non è stato, soprattutto nei venti anni della guerra civile che aveva diviso il sud cristiano dal nord mussulmano ma che mai aveva perso la speranza in una convivenza possibile e oggi, nonostante tutto, il sogno si è fatto vicino. Vuole che la mattina dopo andiamo con lei nel loro ospedale. Era una struttura nata per madri cattoliche e straniere, oggi donne mussulmane, anche loro, vengono li a far nascere i loro figli. Ci porta in giro per i reparti, non si stanca mai, la salutiamo mentre spiega in arabo al nostro autista la strada che dobbiamo fare.
Gli occhi chiarissimi di Gabriella sono l’unica cosa che vediamo tra cuffia e mascherina ma anche lei parla e spiega, vuole che capiamo bene quello che stanno facendo ora. È la trecentesima operazione a cuore aperto, in una sala operatoria che forse nemmeno in Italia, e qui siamo nel cuore dell’Africa. Lei è anestesista alle Molinette ed è qui da tre mesi, fa il suo turno per Emergency e poi tornerà indietro. Forse racconterà agli amici di questo ospedale che sembra quello di dr.House solo che attorno c’è il deserto e quelli che hanno bisogno vengono operati, gratis.
Francesca la incontriamo, in mezzo al deserto. Nel senso che il campo tendato che dirige sta proprio sulle dune di fronte alle piramidi di Meroe. Ha ventisette anni, il padre la voleva in banca, lei ha studiato scienze naturali e voleva stare all’aria aperta. Ora ci sta davvero. Si è conquistata il rispetto di tutti quando ha chiesto a quelli che lavorano al campo di portarle tutti i tipi di insetti che capitavano a tiro, per poterli vedere da vicino. Italiane, altre italiane.

venerdì 16 novembre 2007

Quel film ottimista, volando verso l'Africa

Certe volte fa uno strano effetto il film visto su un aeroplano. In genere uno lo sceglie a caso, qualche volta decide di vedere quello che al cinema rimanda sempre e così capita che si ritrovi davanti a uno straordinario musical americano mentre vola in Africa ed ecco che l'effetto è assicurato. Si sta parlando di “Hairspray”, quello dove John Travolta interpreta irresistibilmente una madre, tenera e sovrappeso, sempre alle prese con i panni da stirare, un marito stralunato ma romantico e una figlia che torna da scuola di corsa per ballare in salotto, davanti alla tv. Ma attenzione niente a che vedere con le aspiranti veline di oggi. Quello di Hairspray non solo è un divertente affresco degli anni sessanta ma è anche un racconto nella migliore tradizione hollywoodiana, che mescola per bene gli ingredienti del sogno americano e ricorda a tutti da dove si era partiti, dall’idea che l’integrazione razziale, per esempio, fosse un valore da conquistare allora e per sempre. La storia ruota attorno a una trasmissione della locale tv che consacra i migliori ballerini della città. Prima era riservata solo ai bianchi poi, in un crescendo di trovate e personaggi, tra risate e lagrime, diventerà il palcoscenico della nascente società di uomini e donne tutti uguali. “Tv is black and white” è la battuta migliore del film, non la dice nessuno, è solo una delle scritte sui cartelli della spontanea manifestazione di protesta davanti agli studi dell’allora televisione in bianco e nero. Insomma un gran bel film e però, quando finisce, uno si guarda intorno, si ricorda che sta andando in uno di quei posti che l’America di Bush inserisce nella lista nera degli Stati di cui diffidare e allora prova un certo disagio. Non per la lista nera ma per quella America che sembra non esserci più. La fabbrica dei sogni che testardamente continua con i suoi uomini migliori a costruire storie positive può insomma provocare un effetto nostalgia sullo spettatore di oggi. La televisione per esempio, lì raccontata come luogo simbolo dell’integrazione, oggi è invasa dalle sequenze di guerre o dagli sproloqui di Bin Laden, rilanciate, le une e gli altri, da un punto all'altro del mondo, in un rincorrersi di paure e incomunicabilità. Così uno scende dall’aereo olandese nel paese africano, mette da parte la favola del film e in conto diffidenza per quello che può incontrare.
Poi capita di ritrovarsi una anziana signora che al tramonto, ai piedi di una montagna considerata sacra fin dalla notte dei tempi arranca verso di te, che sei a metà strada, per offrirti un dolcetto solo perchè tu prima, in cima alla salita, l’avevi salutata. Allora ti torna in mente il film e ti viene da pensare che abbia ragione Hollywood ad essere così testardamente ottimista.

mercoledì 7 novembre 2007

Buoni, cattivi e viceversa

A parte Biagi, che ha fermato tutti, ci sono state un paio di storie che hanno provato ad allontanarci dal frullatore dell’emergenza sicurezza che gira a tutta velocità ormai da giorni. La prima è stata la cattura dei due boss Lo Piccolo, padre e figlio. Le catture sono catture, in genere si riconoscono i buoni e i cattivi, ci sono quelli in uniforme, le sirene, le armi spianate, gli arrestati che si coprono il volto e così di seguito. Quella di Palermo è già quasi da repertorio classico di lotta alla mafia, il filmato della villetta circondata con il marchio “Questura di Palermo” ma soprattutto il trasferimento in carcere dei catturati, che ce li fa guardare in faccia, con il padre che si comporta diversamente dal figlio. Capelli bianchi il primo non cerca nessuno, non si nasconde ma non guarda, l’altro il giovane, vuole invece la telecamera, bacia e saluta chissà chi, forse già un possibile futuro pubblico tv. E attorno la folla che urla, insulti facili o liberatori, dipende dai punti di vista. Tutto regolare, tutto previsto. Meno regolare invece un’altra sequenza di cattura che arriva da lontano. Lahore è una città piena di storia, la capitale culturale del Pakistan. Da giorni ormai protestano contro lo stato d’emergenza dichiarato dal Presidente/Generale Musharraf. Gridano slogan, innalzano cartelli ma quello che colpisce sono giacche, camicie e cravatte che indossano. Vestono all’occidentale gli avvocati pakistani, scendono in piazza contro l’emergenza libertà, brutalmente ridimensionata dalle decisioni del capo dello stato pakistano. Vestono all’occidentale e vengono picchiati brutalmente, presi a calci e caricati a forza sulle camionette da uomini in divisa, ecco un’altra dissonanza, mescolati ad altri in tunica tradizionale, poliziotti e uomini dei servizi, il braccio veramente armato del presidente generale. Così l’Occidente, noi ma gli americani soprattutto, si sono ritrovati in tv, una chiarificatrice immagine di quello che è considerato da Bush l’alleato di ferro contro le minacce di Al Queda in Asia e dintorni. Nodo complicato quello del Pakistan tra democrazia e terrorismo, come pure quello della nostrana lotta alla mafia e alla camorra. La televisione a volte illumina, spesso confonde, vecchia regola resta sempre quella di aggiungere un buon libro per provare a capire. E allora su Pakistan e americani suggeriamo “Il fondamentalista riluttante” di Mohsin Amid, monologo immaginario al tavolo di un caffè di Lahore che va al fondo delle paure e delle diversità tra noi e loro, sulla camorra almeno i primi due dei “Dieci” (cosi è pure il titolo) fulminanti racconti su Napoli di Andrej Longo. Spenta la tv, libri, per provare a capire, ricordando Biagi.

sabato 3 novembre 2007

Avanti il prossimo, il sessantotto

C’è chi ha giocato d’anticipo e lo ha giubilato come l’anno che ha interrotto lo spensierato viaggio degli italiani verso la modernità, chi, come il direttore de Il Foglio, ha promesso che a partire dal primo gennaio, salterà direttamente dal 67 al 69, senza parlarne, ma questi sono solo diversivi. Il fatto vero è che l’industria degli anniversari è già inesorabilmente in moto, le rotative impegnate febbrilmente a stampare per tempo libri e le televisioni a rovistare nei repertori, tutti pregustando l’assalto alla vittima designata, quel 68 che quarant’anni fa fece parlare di sé come spartiacque di epoche e generazioni e che oggi non aspetta altro che farsi processare, con prevedibili sentenze di condanna che andranno da chi ne riconoscerà i tratti dell’ultimo tragico inganno dei totalitarismi del novecento (il libretto rosso di Mao nelle mani dei nostri ragazzi) a chi lo liquiderà come sgangherata e violenta variante della goliardia che lo aveva preceduto. Forse si salveranno le conquiste delle donne e l’eterna attenuante dell’avere vent’anni ma prepariamoci comunque all’ennesima ondata di discussioni e polemiche che sembra ormai, questo si, il tratto distintivo del paese, a stare a chi dovrebbe raccontarlo. Rivangare il passato, quale che sia l’intento, più o meno nobile, sembra infatti essere strada vecchia ma sicura per pubblicazioni e ribalte, o anche riflettori di un giorno .
Chissà invece se tutto questo macinare, calendario alla mano, quello che è stato, servirà a capire l’enigma dell’Italia di oggi, quella fotografata per esempio da Carlo Mazzacurati ne “La giusta distanza”: il Po ancora maestoso, una pianura padana che accoglie gli altri, siano essi maestre toscane o meccanici tunisini, li guarda innamorarsi ma poi di fronte ad un omicidio sceglie la via breve della condanna per quello venuto da più lontano. Oppure il brivido a vedere Genova silenziosa che continua a scorrere mentre il mondo crolla addosso alla coppia di “Giorni e nuvole” di Silvio Soldini che inchioda gli spettatori, stesso stipendio, stessa bella casa, stesso mutuo, a guardarsi allo specchio e a dire, è così che può succedere. Ecco, se la macchina degli anniversari si fermasse, se cambiassimo direzione, se si provasse, come hanno fatto i due bei film, anche a indagare il presente, forse non troveremmo lo stesso la strada ma almeno non staremmo fermi, a fare saltelli sul posto. Quanto al 68, lasciamolo ai ricordi, fossero anche solo quelli piccoli, sfocati, di una sorella che a Milano si ritrovò ad occupare la Bocconi, di un fratello che a Roma tentò di disoccupare Legge, dietro altre bandiere e di un ragazzino che li aspettava a casa a Natale, in Abruzzo e che ora vi scrive.