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mercoledì 26 settembre 2007

New York, cani e altri esseri viventi

C’è una vetrina all’incrocio tra Harrison e Greenwich street che non potevo evitare di guardare. Di mattina quando risalivo il lungofiume e poi svoltavo all’interno dell’isola per andare al lavoro, al tramonto quando scendevo verso il parco di fronte al mio hotel, a duecento metri da ground zero. Mi avvicinavo ogni volta, schiacciavo naso e fronte contro il vetro e loro venivano a salutarmi. Tutti insieme e tutti diversi, a volte dieci a volte venti, i cuccioli non aspettavano altro, qualcuno che li venisse a riprendere, e così si ammucchiavano dall’altra parte del vetro ogni volta che un curioso si avvicinava. Cocker, fox terrier, beagle, una giostra di razze, si accavallavano a fare festa all’estraneo. Pochi secondi durava l’incontro ma ti lasciava un po’ di tutto, tenerezza a vedere come aspettavano, stupore per quanto diversi possano essere visti tutti assieme, fastidio per chi li aveva lasciati soli. È una delle immagini di New York che mi porto dietro, questa sorridente solitudine che spinge moltissimi ad avere animali per compagnia ma con le regole di ferro della metropoli, posteggi magari super lusso, quando serve. Forse anche per questo avevo di buon grado cominciato a leggere “i newyorkesi” ultimo romanzo di Cathleen Schine, scrittrice doc di Manhattan, presentato in bel modo dai nostri giornali. Storie intrecciate di uomini, donne e dei loro piccoli o grandi cuccioli. Scena iniziale passeggiata d’inverno dalle parti di Central Park, incontro casuale (tutto a NY è casuale) con uno sconosciuto per via proprio del cane e via avanti, con la descrizione di personaggi molto diversi ma con una costante sottintesa: tutti, fatte le somme, contenti di vivere lì e di raccontarcelo. Capita poi, a metà libro, di andare a vedere un concerto, anche questo presentato in bel modo dai nostri giornali. All’auditorium di Roma, una compositrice e cantante italiana che a New York ha trovato la sua strada. Torna a casa, a presentare il suo nuovo disco. Chiara Civello, jazz singer di talento indubbio, snocciola i suoi brani, quasi tutti in inglese, musica e atmosfera che riempie ma non coinvolge, forse per via anche del modo di presentarsi, una italiana, anche lei, contenta di raccontarci come si trova bene a New York. Insomma dall’epoca di Allen e della sua dichiarazione d’amore per Manhattan, molta acqua è passata nell’Hudson e capita a volte che “i newyorkesi” che ci propongono i nostri giornali, siano meno imprevedibili del previsto. E allora un consiglio, anzi due. Volateci di persona in città, che oggi, con l’euro forte, costa pure meno. Secondo, consultate prima l’archivio del nyt.com ovvero del New York Times, una vera miniera, che adesso è completamente free. Come E Polis.

mercoledì 19 settembre 2007

Semafori e giustizieri

Ci sono situazioni che ti aiutano a immaginare un’altra possibilità, un’alternativa. Può capitare in aeroporto, fatto il check in, seduto a prendere un caffè che c’è ancora tempo per l’imbarco, guardi il tabellone dei voli e dici, chissà, a prenderne un altro. Oppure luoghi che provi ad usare per capire come cambia il paese in cui vivi, il treno per esempio, dove hai tutto il tempo per giocare a decifrare i vicini di posto, quello che urla al telefono e la signora con un libro più bello del tuo. Poi, ci sono i semafori. Trenta, quaranta secondi di rosso in genere bastano per un aggiornamento sul tasso di opulenza raggiunto dal parco auto nazionale ma anche, da finestrino a finestrino, per una rapida ricognizione del look dei guidatori e, diciamo, del “clima che si respira”, non solo per i gas di scarico. Durano il tempo di un spot ma a volte, come certi spot, lasciano il segno.
È successo due giorni fa, alle nove di sera, tornando dal lavoro. Eravamo in cinque o sei, chiusi nelle nostre vetture, ad aspettare il verde. Sulla sinistra, dal marciapiede, un uomo, non alto, con il suo spazzolone chiede alla signora alla guida dell’auto più vicina se vuole che le pulisca i vetri. La signora, gentile ma decisa mi pare, sono qualche finestrino più in là, dice no grazie. Poteva finire così e invece, ecco l’aggiornamento sul clima, succede che un giovane uomo, alto e muscoloso, vestito forse alla moda per i tempi che corrono ma non so, alla guida di una grande auto affiancata alla prima, dapprima comincia a inveire contro il lavavetri poi non contento, scende a terra, gli si avvicina, letteralmente lo prende per il bavero e quasi lo solleva, come in un telefilm. Pochi secondi di una scena surreale con il piccolo lavavetri che tenta una reazione e la signora automobilista che scende a sedare gli animi. Poi, liberatorio arriva il verde per tutti, clacson mai stati cosi benvenuti, il giovane uomo alto e muscoloso, rientra in fretta nella sua grande auto e sgomma via.
Non so cosa avranno pensato gli altri, cinque o sei, spettatori di questo spot. A me, che guidavo verso il semaforo successivo, banalmente è venuto in mente che finalmente avevo visto da vicino le conseguenze del “clima che si respira”, i nuovi attori che produce e i copioni che diventa normale mettere in scena. Era come se il giovane uomo si sentisse autorizzato a vestire i panni del giustiziere che dà una lezione sul come si fa a liberarsi degli intrusi. E lo facesse per farlo vedere a noi pavidi automobilisti spettatori. Io non so come nasce “il clima che si respira”, tanto meno come si governa e si cavalca, spero ne abbiano qualche idea ministri, sindaci e comici, quello che ho visto due sere fa, a un semaforo, è come genera “mostri”.

giovedì 13 settembre 2007

I primi giorni di scuola

Già il fatto che ci si torni, qui oggi, lì domani, laggiù addirittura la prossima settimana da l’idea. Aggiungeteci il corredo ripetitivo dello zainetto che costa sempre di più, i libri che pesano, le discussioni su ragazzi ignoranti e prof assenteisti, spruzzateci il ricordo dei video bulli su you tube, la cronaca più recente degli auricolari per superare i test di medicina, frullate il tutto ed ecco a voi, benvenuti in classe, si comincia, campanella, via alla stagione autunno inverno prossimo venturo. Parlare della scuola ad ogni inizio è come trovare le parole per dare i brividi raccontando l’esodo di ferragosto, però è giusto farlo. I primi giorni sono gli unici momenti in cui un po’ di riflettori sono accesi, ci si interroga sullo stato dell’arte, su aule, doppi turni e crediti formativi, sul perché quasi tutti sono scontenti di come si insegna e si impara in questo paese. Lasciamo stare questa volta la politica che pure ci ha dato dentro nel fare e disfare norme, riforme e controriforme. Concentriamoci invece sui tre protagonisti della commedia in cartellone: insegnanti, studenti e non ultimi, i genitori. Già perché da qualche anno ormai, questa terza categoria occupa la scena con sempre più audacia e qualche sicumera di troppo. Non sono solo i trucidi papà che prendono per il bavero il prof che ha avuto il torto di non considerare un genio il figlio in matematica, quanto piuttosto quegli italiani che danno per scontato che il lavoro si tramanda e si compra e che quindi scucire sottobanco 15mila euro per aiutare il rampollo ad iscriversi a medicina sia solo il normale prezzo da pagare per confermare quello che tutti danno per scontato, e cioè che il figlio di un medico, medico sarà e quello di un avvocato, cosa volete che faccia, è già pronta la toga; che insomma il tragitto in mezzo per il giovane predestinato sia soltanto una formalità, da passare tra videofonini e noia, con insegnanti malpagati, depressi e rassegnati. Ecco, un quadro come questo, che anno dopo anno aggiunge dettagli sempre più vividi e fantasiosi delle scorciatoie da seguire, preoccupa e fa rabbia un poco. Soprattutto perché la scuola non è tutta così e la parte migliore, la gran parte pensiamo, non sa raccontarlo. Prendete quegli insegnanti che ancora riescono a fare una domanda semplice ai ragazzi: che cosa ti piace gli chiedono e da lì cominciano il duro lavoro di accendere e coltivare una passione, per qualunque cosa, spiegando però che qualunque passione costa fatica ma ripaga sempre. Silenziosa, c’è anche questa scuola. Chissà se alla fine vince. Perché cominciato l’anno, sulle aule, tranne quelle che si incendiano o si allagano per questa o quella bravata, scende l’oblio e se ne riparla a giugno, sotto esami.

lunedì 10 settembre 2007

La ragazza del fiordo

C’è una bella e brava ragazza uccisa, ci sono i sospetti sul fidanzato, c’è un commissario che fa le indagini, una magistrato che lo affianca, testimoni che vengono ascoltati, reperti ritrovati, un paese attonito che aspetta. Si pensava, ma guarda che tempismo quelli de “la ragazza del lago”, film presentato a Venezia e in uscita in questi giorni nelle sale, a raccontare una storia che cade giusto in mezzo all’ultimo mistero estivo della profonda provincia italiana, il delitto di Garlasco. Ora tutti ci si può appassionare a quello che si vuole e i gialli estivi hanno da sempre appassionato molti, almeno a stare a inchiostro e minuti che i cronisti hanno dovuto produrre in quantità industriali per settimane sulla storia della povera Chiara, del suo fidanzato Alberto e sulle sorelle K. Immagino la fatica a rimestare il pastone anche nei giorni in cui non c’era nemmeno un briciolo di analisi dei Ris di Parma. Ma è quello che gli chiedono, di riempire la scena di parole e così fanno. Adesso tocca ai film, si pensava. Poi invece uno entra in sala, si spengono le luci, incontra uno straordinario Toni Servillo che fa il poliziotto meridionale trapiantato nelle valli alpine, riconosce tutti gli ingredienti del mistero, cerca paralleli sistemandosi sulla poltrona e qualcosa non gli torna. Passano i minuti, l’indagine va avanti, la storia si complica ma la stranezza rimane. E all’improvviso sembra di capire quello che non quadra. Non è la storia ma è il fondale, un luogo del delitto così bello e indisturbato non esiste, forse non c’è mai stato, di certo oggi in Italia è introvabile. Dunque la stranezza sta in questo, l’omicidio, le indagini, gli interrogatori accadono nel più totale e assoluto silenzio. Non ci sono automobili per le strade tranne quella della polizia e di uno dei sospettati, non ci sono passanti a vociare in piazza su quello che è successo ma soprattutto non si vedono giornalisti. Non un taccuino, non una telecamera né un microfono. Mai il commissario è circondato da un crocchio concitato di cronisti, né la magistrato inseguita per raccogliere una dichiarazione. Non c’è un avvocato ad esternare un giorno si uno no davanti alle tv locali e nazionali. Insomma non c’è l’Italia di oggi. Anche per questo, forse, la ragazza del lago, risulta straordinario. Perché l’indagine si prende i suoi tempi, senza che nessuno urli e ti sbatta un microfono sulla fronte, il commissario riflette senza dover spiegare perchè in dieci secondi di tg. Che Paese sarebbe, uno pensa, uscendo dalla sala. E infatti si scopre che il film è tratto da un libro che ambientava la storia in un fiordo scandinavo. Il regista Molaioli e lo sceneggiatore Petraglia l’hanno trasportata in una valle friulana di oggi. Altro che giallo, fantascienza.
(non pubblicato per ragioni tecniche su E Polis)