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venerdì 28 dicembre 2007

L'ultimo dell'anno

Key West è l’ultima delle isolette che si allungano come un pontile dalla Florida verso Cuba. Più vicina a l’Avana che a Miami è una specie di circo turistico dove si va per i tramonti, per misurare la distanza dall’altro mondo, per bere nei bar dove una volta si fermava Hemingway e che adesso si contendono visitatori a colpi di sosia (dello scrittore) e feroci battaglie pubblicitarie. Eppure uno di quei bar vince la sfida della curiosità per un dettaglio: le sue pareti sono interamente tappezzate da biglietti. Per lo più da visita ma anche semplici pezzi di carta con su scritte due parole e un nome. A centinaia ricoprono tutti i muri, attaccati con le puntine, il nastro adesivo, incollati in qualche modo. Da lontano niente di più di una maniera singolare di arredare il locale, da vicino si potrebbe stare ore a fantasticare sul commesso viaggiatore di aspirapolveri del New Jersey che sta accanto al broker di Chicago, a fianco il titolare di una ditta di trattori del Connecticut, quasi sovrapposto alla professoressa di un college dello Iowa, tutti passati lì almeno una volta, tutti che si sono fermati almeno un minuto. Chissà cosa pensavano, se erano tristi o allegri, se sono entrati soli e usciti insieme o il contrario e perchè hanno voluto lasciare una traccia. Biglietti in un bar. Giornale in un bar come quello che state leggendo. In questi ultimi giorni dell’anno ho pensato al piccolo caffè del quartiere romano dove qualche volta passo a prenderne una copia, ho immaginato le migliaia di piccoli e grandi posti dove mani casuali o affezionate hanno aperto questi fogli, ho riletto le mail che ho ricevuto, gli sms arrabbiati dei lettori pubblicati ogni giorno su qualunque argomento, specialmente il governo e le cose che non vanno. Che grande idea e che strumento potente questo di lasciare l’informazione gratis sul bancone di un bar, perchè tutti la possano leggere e commentare. Aggiungo che ancora più grande è stato il modo di guidare questa esperienza un po’ visionaria un po’ corsara. Si poteva alzare il volume, gridare, argomentare sommariamente, fomentare passioni, tanto siamo nei bar e invece, liberi noi di scrivere ma sempre sulla rotta del ragionamento, provando a spiegare che le cose sono molto spesso più complicate di uno slogan o di una dichiarazione in tv.
Ora ci sono gli auguri per il nuovo anno, a questo giornale, a chi resta e a chi, come me, saluta. Ma soprattutto a chi legge oggi e leggerà domani, l’augurio di non fermarsi mai alla prima opinione, nemmeno se offerta gratis al bancone. Quanto ai biglietti che ho scritto in questi mesi, un po’ come gli avventori di Key West, sono stati messaggi lasciati per provare a capirsi. Qualche volta succede, anche nei bar.

mercoledì 19 dicembre 2007

Le maestre del Metropolitan

Abbiamo tante cose a cui pensare, alle dimissioni speciali di un generale della guardia di finanza con annessa mozione di sfiducia individuale per il suo nemico ministro o anche al fidanzamento, semplice semplice come le sue canzoni, di una delle italiane più francesi sulla piazza di Parigi: quindi non so se ci sia ancora tempo e voglia per riflettere un poco sul tema del malessere del nostro paese sollevato qualche giorno fa da un’inchiesta americana ma ci provo. Ci sono state repliche difensive, qualche ammissione, autoanalisi ricorrenti sui perchè di una nazione bloccata che ha paura del futuro, insomma materiale più o meno utile a intercettare quello stato d’animo collettivo che sembra oggi mutare di segno, virare sul pessimismo, sulla poca voglia di scommettere sul domani e quello che sarà. Per questo, come piccolo antidoto, voglio raccontarvi quello che ho visto in una mezza giornata passata al Metropolitan di New York. Come tutte le mattine di giorni feriali a popolare le sale immense di quello che è uno dei musei più grandi del mondo ci sono soprattutto ragazzi e ragazze, da soli o con i genitori ma quasi sempre organizzati in visite delle scuole. Sciamano tra i sarcofagi dei faraoni egizi con quaderni per prendere appunti, si fermano davanti alla potenza degli impressionisti, si perdono nella traboccante contaminazione delle sale che nonostante i grandi spazi sembrano ammassare gomito a gomito la bellezza del mondo, un pezzo sull’altro, con un inevitabile effetto di stordimento soprattutto per chi entra la prima volta. Tutto sembra condurre verso una inebriante quanto prevedibile confusione soprattutto per i più piccoli, invece è a questo punto che arrivano le maestre. Ne ho vista una, bianca, occhiali tondi, capelli raccolti, mani sottili che spiegava il tema dell’animismo davanti alle antiche maschere delle civiltà africane. Lei era in piedi che quasi recitava davanti a venti piccoli cuccioli neri, bambini e bambine, accovacciati per terra come una tribù davanti al fuoco. Mi sono fermato un poco a sentire lei che chiedeva, che cosa è la morte? E loro che alzavano la mano, si tu, dimmi, quando non si respira maestra, va bene e adesso tu, là in fondo, cosa rimane, cosa c’è dopo. E tutti con il braccio in alto, tutti volevano dire la loro, i bambini, e lei come un direttore d’orchestra. E qualche sala più in là ce n’erano altre, con i loro piccoli o grandi gruppi di cuccioli, a spiegare, a fare domande, a rispondere. Tutte insieme mi sono sembrate anche loro i pezzi che fanno uno stato d’animo, quello di una nazione che testardamente vuole guardare avanti. E pensare che quasi nessuna delle meraviglie esposte al Metropolitan parla di America. Semmai, almeno un po’, parla di noi.

venerdì 14 dicembre 2007

Lo scontento italiano e il NYT

L'idea era quella di raccontare le frotte di italiani che si riversano in questi giorni per le strade di Manhattan felici di fare shopping scontato per via dell'euro forte. Avevo preso le solite informazioni sui posti, le convenienze, le specializzazioni, mi raccontano di agenzie tutto compreso che li imbarcano a gruppi per gite rapide tra Madison avenue e la Quinta strada e che li riportano indietro dopo tre giorni contenti di aver speso tredicesima e varie in computer e aggeggi digitali che in Italia li paghi il doppio e non importa se alla fine il viaggio ti costa come una tombola perchè comunque hai risparmiato, dipende dai punti di vista.
Cosi mi accomodo di mattina presto, per via del fuso orario, in uno Starbucks qualunque, cappuccino e giornale, a riordinare le idee prima di iniziare il viaggio nella felicità italiana delle spese scontate. E invece ecco che mi ritrovo a leggere di Italia sulla prima pagina del New York Times e non si parla di un paese felice, anzi. La parola usata, analizzata, che fa da filo conduttore alla inchiesta lunga una pagina intera del più importante quotidiano d'america sull'Italia di oggi è disagio, per essere precisi, ripetuta più volte, in italiano, "malessere". È un sentire comune dice l'autore Jan Fisher che riguarda la politica, l'economia e la vita sociale e che trova conferma in una ricerca dell'Università di Cambridge: gli italiani oggi si sentono il paese meno felice dell'Europa occidentale. Così comincia un'altro viaggio fatto di interviste a persone note e meno note che in poche parole tratteggiano l'altra faccia di questo paese. Ci sono i politici certo che dicono la loro, ma si ricordano anche le sortite di Beppe Grillo definito comico e blogger di 59 anni con una grande criniera grigia che grida in piazza "basta! Basta! Basta", una parola, traduce il Nyt, che significa ne abbiamo abbastanza. Poi si segnalano i due libri del malessere, "la casta" di Stella e Rizzo, "Gomorra" di Saviano, e soprattutto le considerazioni di italiani normali, studenti o giovani professionisti che raccontano della sensazione e della difficoltà a diventare il famoso paese normale che un tempo sembrava essere un obiettivo raggiungibile, tanto da farci titoli di libri. Ora invece la lunga e nemmeno cattiva indagine del New York Times sembra darci meno chance. Paragona il possibile destino dell'Italia a quello della Repubblica di Venezia, la città più bella del mondo, che dominò per secoli i commerci con l'Oriente e finì col perdersi senza nemmeno essere conquistata. Insomma non so alla fine se ce la faremo, so che qui a New York oggi, in questo caffè che adesso si e' riempito di ragazzi, cappello, sciarpe e computer portatili, di signore che scrivono sui quaderni e sorseggiano qualcosa di caldo, di turisti capitati per caso che aspettano l'apertura dei negozi, ho speso tre euro per colazione e giornale e ho capito qualcosa di più del posto dove sono nato.

sabato 8 dicembre 2007

Uomini e fiumi

Diciamo la verità i più avvertiti lo hanno già capito da un po’. Dietro guerre e conflitti di oggi, nelle più vicine o remote terre del mondo quasi sempre c’è il petrolio. Non aggiungiamo dettagli perché qui vogliamo parlare delle guerre che verranno, quelle che si scateneranno per accaparrarsi un’altra di quelle risorse della terra che ora sembra normale avere a disposizione senza limiti di sorta ma domani chissà. Per questo l’immagine di un vescovo, saio e sandali, chino sulla sponda del fiume, quasi a pregare la corrente che scorre lenta del rio Sao Francisco, nordest del Brasile, colpisce come una visione, di quello che potrebbe essere il futuro, combattere metro per metro, giorno per giorno, per non perdere l’acqua. Gia perchè è di acqua che stiamo parlando, proprio di quella cosa che scorre a litri mentre ci laviamo i denti e non ci facciamo caso. Invece don Frei Luis Flavio Cappio lo ha capito benissimo e da una settimana ha deciso di fare tutto quello che può, preghiera e sciopero della fame assieme, perché non accada l’irreparabile al fiume che ha deciso di difendere con tutti gli indigeni che gli vivono attorno. Si batte don Cappio contro un mega progetto di deviazione delle acque che dovrebbe servire ad irrigare l’arido territorio del nordeste, 720 chilometri di canali artificiali di cui, a stare ai documenti ufficiali, dovrebbero beneficiare 12 milioni di persone, contadini innanzitutto. E siccome al governo del Brasile adesso c’è Lula, amico del popolo, indigeni e contadini dovrebbero fidarsi. Invece non sembra essere cosi, in molti si sono schierati con il vescovo ambientalista che contesta metodi e merito del mega progetto. A dar man forte al francescano anche studi e ricerche di università che hanno valutato costi e benefici dell’opera che finirebbe, dicono, per far danni più grandi dei vantaggi che produrrebbe, questi ultimi soprattutto alle grandi aziende agricole. Propongono piani alternativi ma per ora il governo sembra non voler tornare indietro e anzi usa l’esercito per la deforestazione che spianerà la strada ai canali. Non siamo in grado da qui di valutare realmente quello che sta succedendo laggiù, di sicuro ci arriva l’eco di un metodo applicato, in nome dello sviluppo, in molte parti del mondo. In Africa, abbiamo visto crescere una gigantesca diga che sbarrerà la strada al Nilo, in Sudan, e lo trasformerà in un lago artificiale lungo quasi duecento chilometri. Saranno cancellati decine di villaggi, spostate a forza 50mila persone, cancellate per sempre tracce archeologiche di un passato prezioso. Tutto questo nei prossimi mesi, nel silenzio assoluto. Bisognerebbe avvertire don Cappio o cominciare noi a capire che l’acqua, già oggi, è più importante del petrolio.

mercoledì 5 dicembre 2007

Quelle parole dalla giungla

La lettera e il video sono stati resi pubblici qualche giorno fa ma vogliamo parlarne ancora, come a tenere viva una fiammella. Non solo perché speriamo tutti in una svolta nella terribile storia di questa donna sequestrata ormai da anni nella giungla colombiana. Ma soprattutto perchè le parole scritte da Ingrid Betancourt vanno dritte al cuore e sono lezione di straordinaria educazione sentimentale. Sappiamo che la famiglia aveva definito la diffusione della lettera da parte delle autorità colombiane una violazione della intimità e una volta letta e riletta ne capiamo le ragioni. Sono le stesse però, che alla fine illuminano sul rigore, la sobrietà, il pudore e la forza di una donna che in condizioni disumane “io che vivo come una morta” riesce a parlare dei suoi cari e del suo paese come raramente ormai abbiamo occasione di ascoltare. Una testimonianza preziosa quindi, in questi tempi di affetti colmati con le cose, di come con le parole si possano costruire e stringere legami perenni, di come si possa dimostrare e chiedere amore su un piccolo pezzo di carta che dopo tre anni si ha la possibilità di riempire, nel breve tempo prima che i carcerieri vengano a prenderlo. Leggere come descrive e sembra vedere dinanzi agli occhi i figli, come sono cresciuti e come saranno diventati, Lorenzo “il mio musicista che canta e m’incanta, il signore del mio cuore”, Melanie “il mio sole di primavera” fa tremare all’idea di quelle famiglie mute la sera davanti alla tv. E con quale naturalezza chiede alla madre di dire ai ragazzi di “mandarmi tre messaggi alla settimana. Niente di speciale, se questo è anche il loro desiderio e se avranno voglia di farlo”. Ora immaginatela li, in mezzo alla giungla, in catene assieme ad altri prigionieri, che quasi non mangia e si sposta ogni notte da un posto all’altro, che chiede ai figli di scrivere con regolarità, sapendo che nulla probabilmente le giungerà di quel conforto. Viene il brivido a ripensare a certe conversazioni su che hai fatto a scuola, niente, vado di là, non rompere.
E poi c’è il Paese, il proprio Paese “quando la notte calava più buia la Francia è stata il faro”, “ammiro la capacità di mobilitarsi di un popolo che, come diceva Camus, sa che vivere significa impegnarsi”. Come si fa a non fremere un poco per parole così, a non riflettere su radici, identità e sulla maniera vigorosa e gentile di coltivarle tanto da scrivere queste cose dinanzi a un nuovo inverno di prigionia, lontano da tutto e da tutti. Poi certo c’è anche dell’altro, la fede e la politica, il tema scomodo dei sequestrati e della fermezza a combattere la guerriglia. Ma la lettera che arriva dalla giungla colpisce soprattutto perché fa riflettere tutti su sé stessi. Famiglie e Paesi.

mercoledì 28 novembre 2007

Calcata low cost

Mi perdonino quelli, soprattutto i giovani degli anni 60 e 70, che conoscono bene Calcata. Due parole per dire che parliamo di un bellissimo borgo medievale a quaranta chilometri da Roma, costruito su roccia di tufo davanti a una spettacolare vallata boscosa. Ne ha passate tante, dall'emigrazione che l'aveva svuotato, alle storie commoventi di rifugio contro le rappresaglie naziste fino, appunto, agli anni sessanta e a seguire che ne fecero una sorta di comune “hippy” d'Italia. Artisti, figli dei fiori, girovaghi stanchi di viaggiare a un certo punto si passarono la voce di questo straordinario paesino isolato dal mondo e lì si ritrovarono, aprendo botteghe, circoli culturali, negozi di stoffe esotiche, sale dei mille tè. Andarci per caso in un piovoso sabato di novembre ha rinnovato i ricordi di una rivoluzione annusata solo da lontano ma anche il sottile disagio di vedere come il tempo macina le cose, ideali e piccole utopie private comprese. Una bandiera del “Che” sventola sempre all’ingresso del paese, i negozi alternativi ci sono ancora, le piccole terrazze per meditare sul senso della vita davanti allo strapiombo intatto sono lì. Ancora di più oggi, uscendo da Roma, dopo aver visto sfilare dal finestrino il flusso indistinto di concessionarie, centri commerciali, tintorie, sale per matrimoni, residence, palestre, solarium, ritrovarsi nel bosco a guardare Calcata che improvvisa spunta dalle rocce, fa bene al cuore e alla salute. Poi però, una volta dentro, l’atmosfera da isola felice, sarà stata anche la pioggia, lentamente scolora e lascia il posto a una malinconica messa in scena, in replica ormai da anni. L’idea libertaria ma anche al fondo un po’ egoista di ritirarsi a vivere tra simili rinunciando a sporcarsi le mani con le brutture del mondo, ora è un susseguirsi di piccolo e onesto commercio di sé stessa. E anzi, oggi, è proprio il mondo che chiede di continuarla, come l’articolo del New York Times, appuntato nelle bacheche di graziosi locali, che racconta la storia di questo rifugio dell’Etruria dove artisti e sognatori decisero di fermarsi, o i siti di compagnie aeree low cost che inseriscono Calcata tra le “pittoresche” località da visitare.
Così ci chiediamo, ora, se nella “comune” di Calcata si aprirà il dibattito sulla notizia che Viterbo, cioè la provincia cui appartiene l’arroccato borgo, avrà un suo aeroporto. Ci saranno i voli di linea e i charter che certo serviranno per offrire un’alternativa agli altri congestionati scali di Roma ma finiranno anche per catapultare ulteriori piccole e grandi carovane di turisti a visitare il paese del lontano da dove. Un bel dilemma per chi aspirava a una vita alternativa ritrovarsi sui depliant del tutto compreso.

mercoledì 21 novembre 2007

Altre italiane

Nella piccola hall dell’hotel Acropole archeologi, inviati, ingegneri, camionisti da deserto si fermano a riposare e leggere i giornali. Sono quelli che ognuno porta con sé e regala alla bacheca comune quando arriva a Khartoum, Sudan. Per cui può esserci il Financial Times di ieri, Le Monde di due giorni fa, La Repubblica che ci avevano dato in aereo, insomma, notizie non proprio freschissime ma non importa. Allora uno sfoglia i giornali e pensa all’Italia, citata solo una volta a proposito dello stop al campionato di calcio. Così gli tornano in mente gli italiani che ha incontrato qui in Africa in questi giorni e decide che si, vale la pena dedicare a loro questo biglietto perchè non hanno mai pensato di andare in televisione o su un giornale. Ne scelgo tre, capita che sono tutte e tre donne e scrivo subito il loro nome, Bianca, Gabriella e Francesca.
Bianca ha più di settant’anni e vive qui da quasi cinquanta. Quando la andiamo a trovare nella Casa delle suore comboniane ci accoglie con un sorriso come se ci conoscesse da sempre. Gli chiediamo se è difficile vivere qui e ci racconta che si, facile non è stato, soprattutto nei venti anni della guerra civile che aveva diviso il sud cristiano dal nord mussulmano ma che mai aveva perso la speranza in una convivenza possibile e oggi, nonostante tutto, il sogno si è fatto vicino. Vuole che la mattina dopo andiamo con lei nel loro ospedale. Era una struttura nata per madri cattoliche e straniere, oggi donne mussulmane, anche loro, vengono li a far nascere i loro figli. Ci porta in giro per i reparti, non si stanca mai, la salutiamo mentre spiega in arabo al nostro autista la strada che dobbiamo fare.
Gli occhi chiarissimi di Gabriella sono l’unica cosa che vediamo tra cuffia e mascherina ma anche lei parla e spiega, vuole che capiamo bene quello che stanno facendo ora. È la trecentesima operazione a cuore aperto, in una sala operatoria che forse nemmeno in Italia, e qui siamo nel cuore dell’Africa. Lei è anestesista alle Molinette ed è qui da tre mesi, fa il suo turno per Emergency e poi tornerà indietro. Forse racconterà agli amici di questo ospedale che sembra quello di dr.House solo che attorno c’è il deserto e quelli che hanno bisogno vengono operati, gratis.
Francesca la incontriamo, in mezzo al deserto. Nel senso che il campo tendato che dirige sta proprio sulle dune di fronte alle piramidi di Meroe. Ha ventisette anni, il padre la voleva in banca, lei ha studiato scienze naturali e voleva stare all’aria aperta. Ora ci sta davvero. Si è conquistata il rispetto di tutti quando ha chiesto a quelli che lavorano al campo di portarle tutti i tipi di insetti che capitavano a tiro, per poterli vedere da vicino. Italiane, altre italiane.

venerdì 16 novembre 2007

Quel film ottimista, volando verso l'Africa

Certe volte fa uno strano effetto il film visto su un aeroplano. In genere uno lo sceglie a caso, qualche volta decide di vedere quello che al cinema rimanda sempre e così capita che si ritrovi davanti a uno straordinario musical americano mentre vola in Africa ed ecco che l'effetto è assicurato. Si sta parlando di “Hairspray”, quello dove John Travolta interpreta irresistibilmente una madre, tenera e sovrappeso, sempre alle prese con i panni da stirare, un marito stralunato ma romantico e una figlia che torna da scuola di corsa per ballare in salotto, davanti alla tv. Ma attenzione niente a che vedere con le aspiranti veline di oggi. Quello di Hairspray non solo è un divertente affresco degli anni sessanta ma è anche un racconto nella migliore tradizione hollywoodiana, che mescola per bene gli ingredienti del sogno americano e ricorda a tutti da dove si era partiti, dall’idea che l’integrazione razziale, per esempio, fosse un valore da conquistare allora e per sempre. La storia ruota attorno a una trasmissione della locale tv che consacra i migliori ballerini della città. Prima era riservata solo ai bianchi poi, in un crescendo di trovate e personaggi, tra risate e lagrime, diventerà il palcoscenico della nascente società di uomini e donne tutti uguali. “Tv is black and white” è la battuta migliore del film, non la dice nessuno, è solo una delle scritte sui cartelli della spontanea manifestazione di protesta davanti agli studi dell’allora televisione in bianco e nero. Insomma un gran bel film e però, quando finisce, uno si guarda intorno, si ricorda che sta andando in uno di quei posti che l’America di Bush inserisce nella lista nera degli Stati di cui diffidare e allora prova un certo disagio. Non per la lista nera ma per quella America che sembra non esserci più. La fabbrica dei sogni che testardamente continua con i suoi uomini migliori a costruire storie positive può insomma provocare un effetto nostalgia sullo spettatore di oggi. La televisione per esempio, lì raccontata come luogo simbolo dell’integrazione, oggi è invasa dalle sequenze di guerre o dagli sproloqui di Bin Laden, rilanciate, le une e gli altri, da un punto all'altro del mondo, in un rincorrersi di paure e incomunicabilità. Così uno scende dall’aereo olandese nel paese africano, mette da parte la favola del film e in conto diffidenza per quello che può incontrare.
Poi capita di ritrovarsi una anziana signora che al tramonto, ai piedi di una montagna considerata sacra fin dalla notte dei tempi arranca verso di te, che sei a metà strada, per offrirti un dolcetto solo perchè tu prima, in cima alla salita, l’avevi salutata. Allora ti torna in mente il film e ti viene da pensare che abbia ragione Hollywood ad essere così testardamente ottimista.

mercoledì 7 novembre 2007

Buoni, cattivi e viceversa

A parte Biagi, che ha fermato tutti, ci sono state un paio di storie che hanno provato ad allontanarci dal frullatore dell’emergenza sicurezza che gira a tutta velocità ormai da giorni. La prima è stata la cattura dei due boss Lo Piccolo, padre e figlio. Le catture sono catture, in genere si riconoscono i buoni e i cattivi, ci sono quelli in uniforme, le sirene, le armi spianate, gli arrestati che si coprono il volto e così di seguito. Quella di Palermo è già quasi da repertorio classico di lotta alla mafia, il filmato della villetta circondata con il marchio “Questura di Palermo” ma soprattutto il trasferimento in carcere dei catturati, che ce li fa guardare in faccia, con il padre che si comporta diversamente dal figlio. Capelli bianchi il primo non cerca nessuno, non si nasconde ma non guarda, l’altro il giovane, vuole invece la telecamera, bacia e saluta chissà chi, forse già un possibile futuro pubblico tv. E attorno la folla che urla, insulti facili o liberatori, dipende dai punti di vista. Tutto regolare, tutto previsto. Meno regolare invece un’altra sequenza di cattura che arriva da lontano. Lahore è una città piena di storia, la capitale culturale del Pakistan. Da giorni ormai protestano contro lo stato d’emergenza dichiarato dal Presidente/Generale Musharraf. Gridano slogan, innalzano cartelli ma quello che colpisce sono giacche, camicie e cravatte che indossano. Vestono all’occidentale gli avvocati pakistani, scendono in piazza contro l’emergenza libertà, brutalmente ridimensionata dalle decisioni del capo dello stato pakistano. Vestono all’occidentale e vengono picchiati brutalmente, presi a calci e caricati a forza sulle camionette da uomini in divisa, ecco un’altra dissonanza, mescolati ad altri in tunica tradizionale, poliziotti e uomini dei servizi, il braccio veramente armato del presidente generale. Così l’Occidente, noi ma gli americani soprattutto, si sono ritrovati in tv, una chiarificatrice immagine di quello che è considerato da Bush l’alleato di ferro contro le minacce di Al Queda in Asia e dintorni. Nodo complicato quello del Pakistan tra democrazia e terrorismo, come pure quello della nostrana lotta alla mafia e alla camorra. La televisione a volte illumina, spesso confonde, vecchia regola resta sempre quella di aggiungere un buon libro per provare a capire. E allora su Pakistan e americani suggeriamo “Il fondamentalista riluttante” di Mohsin Amid, monologo immaginario al tavolo di un caffè di Lahore che va al fondo delle paure e delle diversità tra noi e loro, sulla camorra almeno i primi due dei “Dieci” (cosi è pure il titolo) fulminanti racconti su Napoli di Andrej Longo. Spenta la tv, libri, per provare a capire, ricordando Biagi.

sabato 3 novembre 2007

Avanti il prossimo, il sessantotto

C’è chi ha giocato d’anticipo e lo ha giubilato come l’anno che ha interrotto lo spensierato viaggio degli italiani verso la modernità, chi, come il direttore de Il Foglio, ha promesso che a partire dal primo gennaio, salterà direttamente dal 67 al 69, senza parlarne, ma questi sono solo diversivi. Il fatto vero è che l’industria degli anniversari è già inesorabilmente in moto, le rotative impegnate febbrilmente a stampare per tempo libri e le televisioni a rovistare nei repertori, tutti pregustando l’assalto alla vittima designata, quel 68 che quarant’anni fa fece parlare di sé come spartiacque di epoche e generazioni e che oggi non aspetta altro che farsi processare, con prevedibili sentenze di condanna che andranno da chi ne riconoscerà i tratti dell’ultimo tragico inganno dei totalitarismi del novecento (il libretto rosso di Mao nelle mani dei nostri ragazzi) a chi lo liquiderà come sgangherata e violenta variante della goliardia che lo aveva preceduto. Forse si salveranno le conquiste delle donne e l’eterna attenuante dell’avere vent’anni ma prepariamoci comunque all’ennesima ondata di discussioni e polemiche che sembra ormai, questo si, il tratto distintivo del paese, a stare a chi dovrebbe raccontarlo. Rivangare il passato, quale che sia l’intento, più o meno nobile, sembra infatti essere strada vecchia ma sicura per pubblicazioni e ribalte, o anche riflettori di un giorno .
Chissà invece se tutto questo macinare, calendario alla mano, quello che è stato, servirà a capire l’enigma dell’Italia di oggi, quella fotografata per esempio da Carlo Mazzacurati ne “La giusta distanza”: il Po ancora maestoso, una pianura padana che accoglie gli altri, siano essi maestre toscane o meccanici tunisini, li guarda innamorarsi ma poi di fronte ad un omicidio sceglie la via breve della condanna per quello venuto da più lontano. Oppure il brivido a vedere Genova silenziosa che continua a scorrere mentre il mondo crolla addosso alla coppia di “Giorni e nuvole” di Silvio Soldini che inchioda gli spettatori, stesso stipendio, stessa bella casa, stesso mutuo, a guardarsi allo specchio e a dire, è così che può succedere. Ecco, se la macchina degli anniversari si fermasse, se cambiassimo direzione, se si provasse, come hanno fatto i due bei film, anche a indagare il presente, forse non troveremmo lo stesso la strada ma almeno non staremmo fermi, a fare saltelli sul posto. Quanto al 68, lasciamolo ai ricordi, fossero anche solo quelli piccoli, sfocati, di una sorella che a Milano si ritrovò ad occupare la Bocconi, di un fratello che a Roma tentò di disoccupare Legge, dietro altre bandiere e di un ragazzino che li aspettava a casa a Natale, in Abruzzo e che ora vi scrive.

mercoledì 17 ottobre 2007

Le Primarie che verranno, se verranno

Avranno già sistemato i piccoli paraventi di cartone nel ripostiglio, buttati no, che non si sa mai. Avranno riposto con cura nei cassetti i registri e le liste di chi ha partecipato e riorganizzato la sala per vedere la prossima partita. Sui muri le liste dei candidati erano affisse tra il poster di Totti e il calendario del campionato, che si faceva fatica a trovarli ma solo per chi aveva fretta e domenica nessuno aveva fretta. È la seconda volta che vedo votare in un circolo di tifosi di calcio e spero che non sia l’ultima. Perché anche questa cosa dei luoghi dove sono andati, o meglio tornati, i tre milioni e passa di italiani delle primarie ha un suo piccolo senso. Certo, sezioni di partiti ma anche librerie, ristoranti, tende, club dei generi più vari, aperti tutti i giorni della vita e anche quella domenica lì. Posti dove le persone si incontrano e dove, prudenti, tranquille, senza rulli e tamburi hanno dato, per la seconda volta, un segnale a tutta la politica e indicato una strada, una possibile via d’uscita, forse addirittura un metodo. In fondo gli italiani delle primarie hanno inventato un soggetto nuovo, a metà strada tra il vecchio militante, il funzionario, il consigliere, l’assessore, insomma i professionisti della materia e l’elettore classico, chiamato al voto tra opinioni sempre meno ragionate e interessi sempre più indefinibili, nel rombo di campagne politiche o amministrative da finta e immobile ultima spiaggia. A ben vedere, le primarie dimostrano invece che non è un’utopia invitare milioni di persone a scegliere, oggi un segretario, domani chissà. “Aspettatevi decisioni che vi sorprenderanno, aspettatevi discontinuità” frasi ripetute dopo il trionfo, dal duo di testa Walter e Dario. E allora proviamo l’azzardo, diciamo l’indicibile, che le primarie diventino uno strumento costitutivo del partito nuovo e della buona politica, che i tre milioni siano chiamati tutte le volte che su una questione importante il nuovo partito non riesca a trovare la strada. È vero, i Democratici scommettono sulla sintesi tra le culture, le identità, le provenienze, avranno le loro assemblee, i loro dirigenti, le loro discussioni. Ma dovesse succedere che su una scelta importante la nave si incagliasse su vecchi scogli, non sarebbe male ricordarsi che dietro, silenziosi ma testardi ci sono quei tre milioni che se invitati pacatamente hanno risposto, “eccoci”. Basterebbe chiamarli a scegliere per decidere, a maggioranza, la via maestra della democrazia. “Rispondo a quei tre milioni” altra frase di Veltroni nella notte del trionfo. Ecco, appunto, a quelli del club della Roma, a Monteverde vecchio, tenete sempre pronti i paraventi di cartone, se ci fosse bisogno.

giovedì 11 ottobre 2007

Italiani a New York

Sarà stata la visione di Mastella con lo sfondo dei grattacieli, lunedì sera a Porta a Porta, o quello che diceva riferendosi alla sfilata per il Columbus Day, “qui mi conoscono in tanti”. Fatto sta che ci è tornato in mente l’archivio storico del New York Times e la benemerita decisone di renderlo totalmente free. Tutti gli articoli del prestigioso quotidiano accessibili, dal 1981 ad oggi, basta cercare. Si può scavare come in una miniera o anche giocare e vedere l’effetto che fa. Scegliamo di giocare e digitiamo i nomi di quattro uomini politici italiani, diciamo tra quelli che più riempiono le pagine dei nostri giornali, tipo Prodi e Berlusconi, Fini e Veltroni. Vogliamo vedere quando è stata l’ultima volta che il NYT si è occupato di loro e a che proposito. Cominciamo dal capo del governo in carica, l’ultima citazione per Romano Prodi è dell’8 ottobre, riguarda gli incontri avvenuti in Kazakhstan per il giacimento sotto il mar Caspio, l’Eni rischia di essere tagliata fuori, Prodi incontra il presidente Nazarbayev e forse qualcosa ottiene visto che il NYT titola così “il leader kazaco attenua la tensione sul progetto petrolio”. Più o meno un capo di governo che prova a fare il suo lavoro, un po’ grigio, un po’ concreto, insomma Prodi. Veniamo agli altri. Preparatevi. L’ultima traccia del Cavaliere risale al 27 settembre e arriva da fonte imprevedibile, “la nostra esperienza multietnica è nata dopo il governo Berlusconi e la sua legge anti immigrazione”. A parlare è il direttore dell’orchestra di Piazza Vittorio, Mario Tronco, intervistato dal NYT all’indomani dell’impensabile trionfale concerto al Teatro dell’Opera. Quando si dice l’ironia. Digitiamo “Fini”, si torna molto più indietro, l’ultima volta che il NYT ha scritto il suo nome è stata l’estate di un anno fa, il 25 giugno 2006, a proposito delle disavventure del suo portavoce “Mr. Sottile, who works for Gianfranco Fini”, in un lungo articolo che riassumeva la storia delle intercettazioni telefoniche e derivati, poi, fino ad oggi, nient’altro. È la volta di Veltroni, il politico americano per eccellenza, andiamo sul sicuro. Clic. “A Roma, un nuovo rituale su un vecchio ponte”, 6 agosto scorso, l’ultima citazione per il sindaco di Roma riguarda i lucchetti dell’amore di ponte Milvio. Però, questi americani. Non abbiamo giocato con il nome del Ministro della Giustizia che di questi tempi sembra brutto ma abbiamo fatto un ultimo tentativo, abbiamo scritto “italian”, cerchiamo l’ultimo italiano segnalato, è venuto fuori Claudio Magris, “the italian novelist”, dato come favorito al Nobel per la Letteratura. Siamo qui, con il suo “Infinito viaggiare” tra le mani, a incrociare le dita.

p.s. Poi ha vinto Doris Lessing.

mercoledì 3 ottobre 2007

Voti d'autunno

Ottobre tempo di votazioni, in Italia. Ce ne sono di tutti i generi, come i film. E come le pellicole ci sono quelle che ti emozioni, quelle da seguire con attenzione, quelle che aspetti il colpo di scena, quelle che non hai capito il retroscena, quelle che vorresti uscire dal cinema prima del tempo. E come a un festival le storie si accavallano e i più bravi, tra critici e spettatori, cercano sempre di trovare un filo comune, un’atmosfera, uno spirito dei tempi che le tenga tutte assieme. Qualche volta riesce, molto più spesso no e allora meglio fare un elenco, con impressioni a margine. Cominciamo dalla votazione autunnale per eccellenza, quella della legge Finanziaria. Film tragicomico per definizione, questa volta con venature accentuate di thriller per via dei numeri, in programma da oggi sullo schermo del Senato. In genere, ogni anno, con qualunque governo, a proiezione finita e sala chiusa cominciano i commenti del tipo, mai più una votazione così, il meccanismo va riformato, non si può votare a scatola chiusa una legge così importante. Quest’anno, previdente, il Presidente della Repubblica ha giocato d’anticipo e queste cose le ha dette prima. Servirà a qualcosa? Facile rispondere, no. Anzi tutti si preparano a recitare il copione con la scena della corda tirata fino al limite e la battuta che, se si spezza, la colpa è sempre di quell’altro. Cambiamo sala, dal Senato a Mirafiori, qui, se permettete, il film è diverso. Si discute, come si farà in centinaia di fabbriche, se l’accordo fatto con il governo sul cosiddetto “welfare” cioè quello che lo Stato può e deve fare per aiutare i più deboli a tenersi in carreggiata sia da accettare o no. I toni sono aspri, gli operai si dividono su chi è deluso e chi dice è solo un passo ma nella direzione giusta. Ci sono anche paradossi di antica eleganza come il segretario dei metalmeccanici Fiom Rinaldini, contrario all’accordo che ha l’incarico di illustrarlo obiettivamente, l’accordo, nella relazione introduttiva all’assemblea. Ma il film è diverso soprattutto per il finale, perché quando si voterà, la maggioranza, alla fine, sarà la posizione di tutti i lavoratori, anche di quelli che, con passione, hanno perso la partita. Comunque vada, sarà una lezione per tutti, anche per quelli del film più atteso della stagione, le primarie del PD. I preparativi della megaproduzione hanno finora ottenuto qualche esito deprimente (pensate a Mussi, poi a Dini, Bordon, Angius e alle loro pattuglie vaganti) e sono stati almeno farraginosi per lo spettatore/votante comune. Qualcuno dovrà spiegargli, per esempio, perché ci sono tre liste tre che sostengono Veltroni e qual’è la differenza. Che almeno il giorno del voto ci sia il sole, come due anni fa.

mercoledì 26 settembre 2007

New York, cani e altri esseri viventi

C’è una vetrina all’incrocio tra Harrison e Greenwich street che non potevo evitare di guardare. Di mattina quando risalivo il lungofiume e poi svoltavo all’interno dell’isola per andare al lavoro, al tramonto quando scendevo verso il parco di fronte al mio hotel, a duecento metri da ground zero. Mi avvicinavo ogni volta, schiacciavo naso e fronte contro il vetro e loro venivano a salutarmi. Tutti insieme e tutti diversi, a volte dieci a volte venti, i cuccioli non aspettavano altro, qualcuno che li venisse a riprendere, e così si ammucchiavano dall’altra parte del vetro ogni volta che un curioso si avvicinava. Cocker, fox terrier, beagle, una giostra di razze, si accavallavano a fare festa all’estraneo. Pochi secondi durava l’incontro ma ti lasciava un po’ di tutto, tenerezza a vedere come aspettavano, stupore per quanto diversi possano essere visti tutti assieme, fastidio per chi li aveva lasciati soli. È una delle immagini di New York che mi porto dietro, questa sorridente solitudine che spinge moltissimi ad avere animali per compagnia ma con le regole di ferro della metropoli, posteggi magari super lusso, quando serve. Forse anche per questo avevo di buon grado cominciato a leggere “i newyorkesi” ultimo romanzo di Cathleen Schine, scrittrice doc di Manhattan, presentato in bel modo dai nostri giornali. Storie intrecciate di uomini, donne e dei loro piccoli o grandi cuccioli. Scena iniziale passeggiata d’inverno dalle parti di Central Park, incontro casuale (tutto a NY è casuale) con uno sconosciuto per via proprio del cane e via avanti, con la descrizione di personaggi molto diversi ma con una costante sottintesa: tutti, fatte le somme, contenti di vivere lì e di raccontarcelo. Capita poi, a metà libro, di andare a vedere un concerto, anche questo presentato in bel modo dai nostri giornali. All’auditorium di Roma, una compositrice e cantante italiana che a New York ha trovato la sua strada. Torna a casa, a presentare il suo nuovo disco. Chiara Civello, jazz singer di talento indubbio, snocciola i suoi brani, quasi tutti in inglese, musica e atmosfera che riempie ma non coinvolge, forse per via anche del modo di presentarsi, una italiana, anche lei, contenta di raccontarci come si trova bene a New York. Insomma dall’epoca di Allen e della sua dichiarazione d’amore per Manhattan, molta acqua è passata nell’Hudson e capita a volte che “i newyorkesi” che ci propongono i nostri giornali, siano meno imprevedibili del previsto. E allora un consiglio, anzi due. Volateci di persona in città, che oggi, con l’euro forte, costa pure meno. Secondo, consultate prima l’archivio del nyt.com ovvero del New York Times, una vera miniera, che adesso è completamente free. Come E Polis.

mercoledì 19 settembre 2007

Semafori e giustizieri

Ci sono situazioni che ti aiutano a immaginare un’altra possibilità, un’alternativa. Può capitare in aeroporto, fatto il check in, seduto a prendere un caffè che c’è ancora tempo per l’imbarco, guardi il tabellone dei voli e dici, chissà, a prenderne un altro. Oppure luoghi che provi ad usare per capire come cambia il paese in cui vivi, il treno per esempio, dove hai tutto il tempo per giocare a decifrare i vicini di posto, quello che urla al telefono e la signora con un libro più bello del tuo. Poi, ci sono i semafori. Trenta, quaranta secondi di rosso in genere bastano per un aggiornamento sul tasso di opulenza raggiunto dal parco auto nazionale ma anche, da finestrino a finestrino, per una rapida ricognizione del look dei guidatori e, diciamo, del “clima che si respira”, non solo per i gas di scarico. Durano il tempo di un spot ma a volte, come certi spot, lasciano il segno.
È successo due giorni fa, alle nove di sera, tornando dal lavoro. Eravamo in cinque o sei, chiusi nelle nostre vetture, ad aspettare il verde. Sulla sinistra, dal marciapiede, un uomo, non alto, con il suo spazzolone chiede alla signora alla guida dell’auto più vicina se vuole che le pulisca i vetri. La signora, gentile ma decisa mi pare, sono qualche finestrino più in là, dice no grazie. Poteva finire così e invece, ecco l’aggiornamento sul clima, succede che un giovane uomo, alto e muscoloso, vestito forse alla moda per i tempi che corrono ma non so, alla guida di una grande auto affiancata alla prima, dapprima comincia a inveire contro il lavavetri poi non contento, scende a terra, gli si avvicina, letteralmente lo prende per il bavero e quasi lo solleva, come in un telefilm. Pochi secondi di una scena surreale con il piccolo lavavetri che tenta una reazione e la signora automobilista che scende a sedare gli animi. Poi, liberatorio arriva il verde per tutti, clacson mai stati cosi benvenuti, il giovane uomo alto e muscoloso, rientra in fretta nella sua grande auto e sgomma via.
Non so cosa avranno pensato gli altri, cinque o sei, spettatori di questo spot. A me, che guidavo verso il semaforo successivo, banalmente è venuto in mente che finalmente avevo visto da vicino le conseguenze del “clima che si respira”, i nuovi attori che produce e i copioni che diventa normale mettere in scena. Era come se il giovane uomo si sentisse autorizzato a vestire i panni del giustiziere che dà una lezione sul come si fa a liberarsi degli intrusi. E lo facesse per farlo vedere a noi pavidi automobilisti spettatori. Io non so come nasce “il clima che si respira”, tanto meno come si governa e si cavalca, spero ne abbiano qualche idea ministri, sindaci e comici, quello che ho visto due sere fa, a un semaforo, è come genera “mostri”.

giovedì 13 settembre 2007

I primi giorni di scuola

Già il fatto che ci si torni, qui oggi, lì domani, laggiù addirittura la prossima settimana da l’idea. Aggiungeteci il corredo ripetitivo dello zainetto che costa sempre di più, i libri che pesano, le discussioni su ragazzi ignoranti e prof assenteisti, spruzzateci il ricordo dei video bulli su you tube, la cronaca più recente degli auricolari per superare i test di medicina, frullate il tutto ed ecco a voi, benvenuti in classe, si comincia, campanella, via alla stagione autunno inverno prossimo venturo. Parlare della scuola ad ogni inizio è come trovare le parole per dare i brividi raccontando l’esodo di ferragosto, però è giusto farlo. I primi giorni sono gli unici momenti in cui un po’ di riflettori sono accesi, ci si interroga sullo stato dell’arte, su aule, doppi turni e crediti formativi, sul perché quasi tutti sono scontenti di come si insegna e si impara in questo paese. Lasciamo stare questa volta la politica che pure ci ha dato dentro nel fare e disfare norme, riforme e controriforme. Concentriamoci invece sui tre protagonisti della commedia in cartellone: insegnanti, studenti e non ultimi, i genitori. Già perché da qualche anno ormai, questa terza categoria occupa la scena con sempre più audacia e qualche sicumera di troppo. Non sono solo i trucidi papà che prendono per il bavero il prof che ha avuto il torto di non considerare un genio il figlio in matematica, quanto piuttosto quegli italiani che danno per scontato che il lavoro si tramanda e si compra e che quindi scucire sottobanco 15mila euro per aiutare il rampollo ad iscriversi a medicina sia solo il normale prezzo da pagare per confermare quello che tutti danno per scontato, e cioè che il figlio di un medico, medico sarà e quello di un avvocato, cosa volete che faccia, è già pronta la toga; che insomma il tragitto in mezzo per il giovane predestinato sia soltanto una formalità, da passare tra videofonini e noia, con insegnanti malpagati, depressi e rassegnati. Ecco, un quadro come questo, che anno dopo anno aggiunge dettagli sempre più vividi e fantasiosi delle scorciatoie da seguire, preoccupa e fa rabbia un poco. Soprattutto perché la scuola non è tutta così e la parte migliore, la gran parte pensiamo, non sa raccontarlo. Prendete quegli insegnanti che ancora riescono a fare una domanda semplice ai ragazzi: che cosa ti piace gli chiedono e da lì cominciano il duro lavoro di accendere e coltivare una passione, per qualunque cosa, spiegando però che qualunque passione costa fatica ma ripaga sempre. Silenziosa, c’è anche questa scuola. Chissà se alla fine vince. Perché cominciato l’anno, sulle aule, tranne quelle che si incendiano o si allagano per questa o quella bravata, scende l’oblio e se ne riparla a giugno, sotto esami.

lunedì 10 settembre 2007

La ragazza del fiordo

C’è una bella e brava ragazza uccisa, ci sono i sospetti sul fidanzato, c’è un commissario che fa le indagini, una magistrato che lo affianca, testimoni che vengono ascoltati, reperti ritrovati, un paese attonito che aspetta. Si pensava, ma guarda che tempismo quelli de “la ragazza del lago”, film presentato a Venezia e in uscita in questi giorni nelle sale, a raccontare una storia che cade giusto in mezzo all’ultimo mistero estivo della profonda provincia italiana, il delitto di Garlasco. Ora tutti ci si può appassionare a quello che si vuole e i gialli estivi hanno da sempre appassionato molti, almeno a stare a inchiostro e minuti che i cronisti hanno dovuto produrre in quantità industriali per settimane sulla storia della povera Chiara, del suo fidanzato Alberto e sulle sorelle K. Immagino la fatica a rimestare il pastone anche nei giorni in cui non c’era nemmeno un briciolo di analisi dei Ris di Parma. Ma è quello che gli chiedono, di riempire la scena di parole e così fanno. Adesso tocca ai film, si pensava. Poi invece uno entra in sala, si spengono le luci, incontra uno straordinario Toni Servillo che fa il poliziotto meridionale trapiantato nelle valli alpine, riconosce tutti gli ingredienti del mistero, cerca paralleli sistemandosi sulla poltrona e qualcosa non gli torna. Passano i minuti, l’indagine va avanti, la storia si complica ma la stranezza rimane. E all’improvviso sembra di capire quello che non quadra. Non è la storia ma è il fondale, un luogo del delitto così bello e indisturbato non esiste, forse non c’è mai stato, di certo oggi in Italia è introvabile. Dunque la stranezza sta in questo, l’omicidio, le indagini, gli interrogatori accadono nel più totale e assoluto silenzio. Non ci sono automobili per le strade tranne quella della polizia e di uno dei sospettati, non ci sono passanti a vociare in piazza su quello che è successo ma soprattutto non si vedono giornalisti. Non un taccuino, non una telecamera né un microfono. Mai il commissario è circondato da un crocchio concitato di cronisti, né la magistrato inseguita per raccogliere una dichiarazione. Non c’è un avvocato ad esternare un giorno si uno no davanti alle tv locali e nazionali. Insomma non c’è l’Italia di oggi. Anche per questo, forse, la ragazza del lago, risulta straordinario. Perché l’indagine si prende i suoi tempi, senza che nessuno urli e ti sbatta un microfono sulla fronte, il commissario riflette senza dover spiegare perchè in dieci secondi di tg. Che Paese sarebbe, uno pensa, uscendo dalla sala. E infatti si scopre che il film è tratto da un libro che ambientava la storia in un fiordo scandinavo. Il regista Molaioli e lo sceneggiatore Petraglia l’hanno trasportata in una valle friulana di oggi. Altro che giallo, fantascienza.
(non pubblicato per ragioni tecniche su E Polis)

mercoledì 18 luglio 2007

Il suono del silenzio

Per spiegare il tema non trovo di meglio adesso che raccontare la storiella di un mio amico che si trovava all’imbrunire su una delle più popolari spiagge del nostro bel paese. Era lì con la sua fidanzata a guardare il tramonto. Roba di qualche minuto ancora e il sole sarebbe andato giù, come tutti i giorni, con quella regolarità e anche con quel po’ di suggestione che aiuta a fermarsi e pensare, ognuno ai fatti suoi. Il fatto però era che, accanto ai due, c’era un gruppo di connazionali che guardava si il tramonto ma non la smetteva di commentare l’evento, “ti ricordi quello delle Maldive?”, “non si può dimenticare quella volta il Perù”, “certo questo è bello ma hai mai visto quando illumina i grattacieli a New York?”, tutto così, esattamente per l’intera durata del tramonto, tanto che il mio amico alla fine disse, anche lui ad alta voce “ma voi… avete mai visto un tramonto in silenzio? È bellissimo”. Gelo finale e fine della storiella.
Resta il tema, del silenzio, del vuoto e del pieno, e della diversa idea del mondo che ne consegue, soprattutto in questi ineluttabili giorni definiti di vacanza, appunto. La divisione che immediatamente viene alla mente è quella tra chi sceglie i villaggi e chi cerca spiagge deserte ma in realtà il tema è davvero molto serio, è il nostro atteggiamento di fronte al tempo, incasellato, pianificato, riempito anche nei momenti che dovrebbero essere vuoti per definizione e, chissà, scintilla dell’imprevedibile. E invece il vuoto, e il silenzio che spesso lo definisce, viene esorcizzato, estromesso, come sintomo di tempo non utilizzato, quindi perso. Naturalmente e fortunatamente non è cosi. Non scomodiamo le meditazioni, le lezioni di filosofia orientale in versione pocket, basta farsi una bella passeggiata in montagna per capire quanto fa bene qualche volta stare soli e in silenzio.
E per questo che fa impressione l’ennesimo spot di questa guerra per conquistarsi clienti ai telefonini che più o meno offre per una cifra x la possibilità di diverse centinaia di minuti di conversazione al giorno, altrettanti messaggi da scrivere e inviare sempre in un giorno e per tutto un mese, quello della vacanza, appunto. D’accordo, volevano solo pubblicizzare una tariffa conveniente ma l’idea che un ragazzo, trasportato in un posto da un genitore che voleva fargli vedere uno squarcio di mondo, magari anche per farlo pensare un po’, magari da solo, si ritrovi invece attaccato per ore e ore al telefonino con un coetaneo che forse sta nello stesso posto, a qualche metro da lui, tutti e due a parlare senza nemmeno guardarsi in giro e capire dove sono e perché, ecco, fa venire in mente che il vero lusso è il silenzio, ricco chi lo cerca, lo trova e lo sa usare.

mercoledì 11 luglio 2007

I templi e la vergogna

Adesso siamo, come era prevedibile, al tempo delle riparazioni.
“I ragazzi saranno nostri ospiti” dice in tv il sindaco di Agrigento, “chiediamo scusa non succederà mai più” echeggia sulle agenzie stampa il presidente della regione Sicilia Cuffaro: insomma il caso bambini valle dei templi sembra ormai avviarsi ad una rapida archiviazione nello scaffale “malintesi burocratici”. Cosa era successo una settimana fa è presto detto, una classe scolastica di Palermo si reca in gita a vedere da vicino le meraviglie archeologiche della valle agrigentina, una volta arrivati sul posto gli accompagnatori chiedono l’ingresso gratuito per i bambini, come previsto da norma regionale che recepisce norma europea eccetera che dice: entrano senza pagare tutti i cittadini europei minori di 18 anni. Inopinatamente gli addetti alla biglietteria chiedono certificato di nazionalità, forse scrutando qua e là i volti dei piccoli, alcuni si dice scuri di pelle o dai lineamenti troppo mediterranei. La comitiva infatti, proviene da una scuola dove studiano molti figli di immigrati, ragazzi nati in Italia, ma che, come normalmente accade per i bambini, non hanno in tasca nessun documento che lo possa dimostrare. Risultato niente visita gratis per i ragazzi di Palermo. Ora, basterebbe solo immaginare il viaggio di ritorno nel pulmann di questi bambini, la difficoltà degli insegnanti a spiegare perchè qualcuno di loro poteva entrare senza pagare e qualcun altro no, per sotterrarsi dalla vergogna. Infatti è cominciato all’unisono il coro delle dichiarazioni ma tutte con un qualche distinguo: “esterrefatto” il sindaco di Palermo “questi bambini sono a tutti gli effetti cittadini italiani”, “un disguido burocratico ma la norma va rispettata” precisano i responsabili del parco archeologico, “cambieremo la norma” assicura il Presidente della Regione. Ecco, appunto, la norma. Ci perdoni la pedanteria, Presidente, ma ci proviamo. Dunque, la norma prevede: biglietti gratis per i cittadini europei sotto i 18 anni, lo spirito della norma si suppone sia: aiutiamo i giovani ad avvicinarsi alla storia e alla cultura, di cui i templi di Agrigento sono straordinaria testimonianza mondiale. Ora un comma della norma, quello che ha dato origine allo “spiacevole episodio”, è proprio quel “cittadini europei” che ha messo in difficoltà i bigliettai del parco di fronte a volti che, nel loro immaginario, ad andar bene erano stranieri, a pensar male peggio. Allora coraggio Presidente, riscriva così la norma “tutti i ragazzi del mondo possono venire a vedere la Valle dei Templi quando vogliono e senza pagare”. “Mondo”, Presidente, è una parola semplice, facile, grande e non si presta a malintesi burocratici di sorta. Lo faccia e saremo tutti contenti.

venerdì 6 luglio 2007

Leggere tra gli alberi

Forse preparavano la maturità le tre ragazze che ho incrociato in questi giorni sospesi tra partenze e ultime cose da sbrigare, in una Roma che sotto una luna stupefacente diventa teatro, arena, concerti o, almeno, cena sui balconi a rinfrescarsi. Le ho viste silenziose, chine su libri e quaderni, ripetere a mente o cercare con gli occhi su una pagina l’idea giusta per fare bella figura con i professori o anche solo per passare alla svelta il colloquio e filare via in vacanza. E ho pensato che l’idea giusta comunque l’avevano trovata perché erano lì, a studiare in un giardino di piccoli alberi di aranci, piantati in un cortile e circondati da libri e silenzio. Ci puoi capitare per caso o perché leggi i depliant dell’estate romana ma quando entri comunque ti si ferma un po’ il respiro, il passo rallenta e capisci che i minuti che rimarrai, saranno pochi saranno tanti, ti faranno stare bene. Non importa sapere a quale secolo appartiene il chiostro dell’ex convento ora trasformato in biblioteca, quello che ti serve è scegliere una delle sobrie poltrone in legno e tela e accomodarti. Puoi aver preso dallo scaffale un libro, scrittori del mondo che lo raccontano per te, oppure solo goderti il tempo che scorre mentre ti guardi attorno. E se decidi che vuoi vederla tutta, la biblioteca, ti bastano pochi passi lungo i corridoi e lì incrocerai lo sguardo, formato gigante, di qualcuno di loro, perché ti guardano i ritratti degli scrittori, magari sono passati di là, una di queste sere. Ma nulla ricambia il piacere di avvicinarsi alle finestre che circondano la meraviglia di quei piccoli alberi al centro di tutto, dei libri e dei lettori, perché puoi schiudere le vetrate e entrare. E allora il silenzio da ovattato diventa aperto, le poltrone spartane sedie da giardino e puoi leggere sotto un albero di arancio o studiare, all’ombra, come facevano le tre amiche degli esami. Le ho guardate meglio, ho visto che erano proprio come quelle di oggi, jeans a vita bassa, ciocche colorate. Ho pensato meno male che ci sono posti come questo dove i ragazzi possono stare, se vogliono. Mi sono tornate in mente le polemiche sulle tasse e su province e comuni che spendono tanto e male i nostri soldi. Avrei voluto portarli qui, gli italiani che dicono meno Stato, più mercato, avremmo potuto discutere sommessamente che qualcosa da salvare c’è, della spesa pubblica. Magari un giardino di aranci nel cuore di Roma, e chissà quanti altri ce ne sono in Italia, dove se entri per caso ti rallegri per i ragazzi di oggi e ti riconcili con il tempo che passa. Quando esci scopri che si chiama la Casa delle letterature e sta in piazza dell’orologio. Come una favola.

venerdì 29 giugno 2007

La lunga vita

Che il problema pensioni sia complicato è davvero sotto gli occhi di tutti. Almeno da una decina d’anni, quattro o cinque governi, tutti gli schieramenti, se lo ritrovano sul tavolo. Provano di volta in volta se non a risolverlo almeno a rinviarlo alla stagione successiva, non senza prima aver vissuto momenti di drammatica tensione con i sindacati, vertici notturni, scioperi generali. In genere le parti in scena sono queste: i rappresentanti dei lavoratori che frenano, dicono le cose stanno bene così, i governi che premono, guardate che se non si fa nulla, il sistema non regge. Questa volta le parti sono invertite per via dello scalone, cioè della simpatica trovata dell’ex ministro Maroni di aumentare l’età per andare in pensione da 57 a 60 anni da un giorno all’altro, dal 31 dicembre al 1 gennaio del prossimo anno. Cosicché questa volta sono i sindacati a premere perché si faccia qualcosa, cioè si cancelli quella norma e il governo di turno a barcamenarsi con la patata consegnatagli da quello precedente.
Diciamo subito che non parleremo, qui davvero ci sono fior di specialisti, della faticosa ricerca di un’intesa, della calcolatrice di Padoa-Schioppa contrapposta ai lavori usuranti, dello scalone ammorbidito ma non troppo, delle quote e di tutte le tabelle che seguiranno. No, vorremmo solo sommessamente ricordare che il “macigno” pensioni in realtà è, al fondo, davvero un bel problema. Non solo nel senso di una sua difficile soluzione ma in quello letterale del termine, cioè, è una “bella” questione che si pone, non a caso, soltanto in società del benessere in cui uomini e donne vivono più a lungo. Se i conti non tornano più, nel dare e avere tra lavoratori e pensioni, è infatti perché la vita media degli italiani, uomini e donne, si è allungata. In altre parole trent’anni fa si andava in pensione a 55 anni ma mediamente si godeva del meritato e retribuito riposo per sei o 7 anni. Oggi si lascia il lavoro a 57 (domani chissà) ma aumentano gli anni in cui si è a carico del sistema perché, per fortuna, ripetiamo, per fortuna, si vive molto di più. Certo poi c’è tutto il resto, il monte contributi che decresce perché non crescono i lavori stabili, l’incertezza che accompagna i nuovi lavori, c’è tutto quello, insomma, che determina la fragilità finanziaria delle pensioni future. E però se finalmente una volta, al prossimo vertice, tutti insieme, ministri e rappresentanti dei lavoratori si alzassero a dire: abbiamo si un problema ma è un problema che nasce dal fatto che gli italiani, nonostante tutto, stanno di più al mondo, ecco, forse, allora, saremmo già entrati nell’epoca del vituperato buonismo, o almeno, in quella del buonumore. E chissà che, sotto il segno di Walter, non ci scappi un accordo.

domenica 24 giugno 2007

I cattivi ragazzi

Lasciamo perdere gli angeli che vengono spiumati da una sgommata della vetturetta. Ognuno, soprattutto se lo pagano milioni per uno spot, ha il diritto di pensare che la sua è una buona idea. Quello che preoccupa sono piuttosto le parole, usate con la forza, la disinvoltura e la giocosa licenza di trasgressione che si concede la pubblicità, sempre più spesso. Ora, consapevoli del rischio moralismo, bigottismo, passatismo, procediamo con cautela. Nel medesimo spot l’idea chiave è quella che essere cattivi funziona. “Cattivi dentro” per la precisione, recita la versione radiofonica, quella su carta più ragionata fa così “dedicata (la vetturetta n.d.r.) a chi sa di essere buono, ma che ad essere cattivi ci si diverte di più”. Non è il primo spot del genere. Ricordiamo il giovin signore di un altro filmato, svegliato da un maggiordomo che scuote le tende portando caffè e brioche e lui, sguardo per un attimo interrogativo, che scioglie l’enigma ed esce. Da lontano, su un poggio, due anziani fattori lo vedono scivolare via su una delle tante auto di famiglia e uno, con aria compiaciuta per quello scavezzacollo del loro padroncino, dice all’altro “Oggi ha preso il coupè!”. Allora veniamo al punto. Se la comunicazione ben riesce, nulla da eccepire, anzi, da sempre la pubblicità rivendica il ruolo di avanguardia nel fiutare l’aria che tira. Ma proprio per questo siamo preoccupati. Perché se cerca quel consumatore, vuol dire, purtroppo, che quel consumatore esiste. O sogna, prima o poi, di diventare così. Indimenticabile, a proposito, un altro spot di qualche tempo fa. Ennesimo, lussuoso coupè parcheggiato nel cortile di una scuola. In classe la maestra chiede ai ragazzi cosa vogliono fare da grandi, rispondono, il medico, l’astronauta, la scienziata, solo uno, faccia da futuro belloccio dice, guardando il macchinone pronto in cortile, “avere diciotto anni”. Qui il ritratto del consumatore tipo era davvero straordinario, trattavasi di giovane essere umano il cui unico problema nella vita era superare quegli intralci burocratici che lo dividevano dallo sgommare via sul coupè, e badate bene, non si parlava naturalmente dei soldi, né si accennava lontanamente all’idea di come farli, semplicemente quelli c’erano, il problema era solo di tempo e di carta d’identità. Il resto, e dalla pubblicità facile passare con la memoria alla cronaca, qualche volta anche nera, l’avrebbe fatto quel distratto del paparino, che avrebbe staccato un assegno per il coupè da infiocchettare la sera dei diciotto anni. Ora il fatto che professionisti acuti, disincantati come i pubblicitari trovino geniale e soprattutto redditizia un’idea così ci preoccupa, perchè fotografa un’Italia che c’è. Ecco, alla fine siamo caduti nel moralismo ma va bene così.

giovedì 14 giugno 2007

150 ore di ricordi

Biglietto per nostalgici e per chi ama fare paragoni coi tempi che corrono. Basta solo dire 150 ore e i nostalgici capiscono. Primi anni settanta, il contratto dei metalmeccanici non era solo la busta paga degli operai, era un trattato attorno al quale crescevano e si passavano il testimone generazioni di ragazzi e ragazze. Per il rinnovo del contratto noi studenti scendevamo in piazza accanto a loro, gli operai e le cose scritte nel contratto diventavano parole d’ordine anche nelle scuole: rappresentanze di base, assemblea, egualitarismo.
Inutile tentare un bilancio in poche righe di quella stagione, sulla passione e le idiozie che la segnarono - un’infornata di libri recenti, causa anniversario 77, può tornare utile all’approfondimento - ma se c’è una cosa che rappresentò bene, a un tempo, il profumo di utopia e la concretezza dell’emancipazione di quegli anni, fu proprio la storia delle 150 ore. Scritte sui contratti come norma che prevedeva il diritto di usare quel tempo retribuito per stare fuori dalla fabbrica a studiare divennero rapidamente il simbolo di una nuova società possibile, dove gli operai leggevano libri e chissà, alla fine, ne avrebbero scritti, dove la voglia di rimescolare i ruoli e ribaltare la storia avrebbe fatto il resto, altro che “pezzo di carta” per salire di categoria.
Poi invece c’è stato il resto, quello vero. Fine della rivoluzione, gli operai fuori moda, gli studenti impegnati a diffondere le loro gesta su youtube, due mondi lontani ormai anni luce accomunati forse solo dal destino, simile, di una triste uscita di scena. E le 150 ore? Testarde quelle sono rimaste e, aggrappandosi più all’emancipazione che all’utopia, hanno continuato il loro lavoro nell’ombra consentendo a migliaia di lavoratori/studenti di migliorare, almeno la stima di sé stessi. Ora il fatto è che, da qualche tempo, di 150 ore si torna a parlare. L’idea è venuta al ministro per le politiche sociali Paolo Ferrero che ha pensato: perchè non proporre, su quel modello, una norma per facilitare chi fa volontariato, ore retribuite da fabbrica o ufficio ma usate fuori per aiutare chi sta peggio di noi. Così si è avviato dibattito, con torti e ragioni, “troppo comodo il volontariato se te lo pagano pure”, “giusto invece aiutare e premiare chi si impegna davvero per gli altri”, dibattito, purtroppo, con i toni tipici dell’oggi, volume alto, bianco e nero. Allora incrociamo le dita per le vecchie, care 150 ore, hanno passato indenni epoche di furore ideologico e di romanticismo giovanile, consegnando onesti diplomi mentre si facevano rumorose barricate e anche dopo, quando le fabbriche, in silenzio, si svuotavano. Non vorremmo che questo ritorno di notorietà si rivelasse.

venerdì 8 giugno 2007

il tassista e il metrò (di Atene)

A proposito dell’Italia divisa in due o delle due Italie e di come andrà a finire. Tema da treno, da taxi, da metropolitana, insomma da luogo comune, sappiamo bene il rischio che si corre a citare le opinioni di strada e però a volte esse illuminano, magari solo un flash, che ci rimane in testa e che non riusciamo a spiegare a chi dovrebbe per mestiere o per passione occuparsene tutti i giorni. Cominciamo da un tassista romano incrociato ieri, non abbiamo chiesto impressioni sulla situazione, che quello davvero è abusato espediente dei giornalisti, no abbiamo chiesto di lui, della vita sua e nel tragitto che abbiamo condiviso abbiamo saputo in sequenza che: voleva comprare anni fa una casa in centro, ne aveva trovata una, stava per fare un affare -i proprietari erano due ragazzi tossici che avevano bisogno di soldi- lui ci ha pensato poi ha rinunciato perchè non si sa mai, invece poi ha scelto un quartiere appena fuori, tutto abusivo sa, ma la mia no (naturalmente n.d.r.) aveva tanto di progetto e oggi, col prezzo di una, c’ho due casette e non mi posso lamentare. Pensi proprio ieri ho contrattato un televisore al plasma, sa, di quelli che costano un sacco di soldi, invece l’ho scambiato con la pubblicità sul taxi e via, adesso me lo godo senza cacciare una lira. Fine del tragitto. Atene, le nuove fermate della metropolitana inagurate in occasioni delle Olimpiadi sono bellissime, quasi dei musei sotterranei, ogni reperto che trovavano veniva recuperato, illuminato, incluso nella stazione. Subito dopo l’apertura il comune fece un’indagine per avere le impressioni dei cittadini utenti e tra le varie risposte molte suonavano più o meno cosi “quando so che devo prendere la nuova metropolitana mi vesto un po’ meglio, mi curo di più” insomma l’idea era quella di non voler sfigurare di fronte a tanta luce e bellezza, essere all’altezza di un luogo pubblico e desiderabile. Ecco, quello della desiderabilità sociale delle cose è uno dei temi sui quali avrebbe dovuto esercitarsi la politica. Il trasporto collettivo per esempio, il problema non è solo quanti lo sceglierebbero se fosse puntuale, pulito, illuminato ma come cambierebbero anche i cittadini utenti se diventasse un luogo comune desiderabile e perfino, chiediamo scusa, alla moda. Ora dunque torniamo ai desideri del tassista, dentro il quartiere abusivo, al televisore gigante al plasma goduto col baratto della pubblicità. Questa non c’è dubbio è una Italia che ormai c’è, l’altra non ha mai avuto modo di rispondere a nessun indagine su nuove desiderabili, illuminate, pulite, puntuali metropolitane. Se questa seconda Italia ormai stanca, sfiduciata, non va più a votare o diventa minoranza definitiva nel paese la partita è bella che chiusa.

venerdì 1 giugno 2007

Il perdono e gli anniversari

Impegnati a dividerci tra politica e antipolitica, “presidente” e “segretario” per i più introdotti, destra e sinistra per i demodé, sarà difficile portarvi fino alla fine di questo biglietto.
Parlare di riconciliazione in un paese che non chiude mai una discussione, che non trova mai una salutare pausa alle torte in faccia sarà dura, eppure è giusto tentare. Almeno per quello che è stato. Lo diciamo subito, giocano contro di noi gli anniversari, ce ne sono sempre e si può star certi che, ogni volta, c’è un libro benvenuto a riaprire il caso. Fioriscono puntuali ad ogni scoccar di ricorrenza e via riparte lo scontro, le vittime e i carnefici, tutti ad accaparrarsi i testimoni del tempo da intervistare, tutti a scavare dentro rancori mai sopiti, divisioni mai sanate. È vero, a dare man forte a questo tratto del nostro carattere è sicuramente la lunga catena di tragedie insolute, verità mai completamente dimostrate, sentenze per insufficienza di prove che ci accompagnano da una vita. Cresciuti con Piazza Fontana, passati per Ustica, possiamo tornare indietro alla Resistenza, andare avanti di nuovo alla stazione di Bologna e oltre, discuteremmo per ore fino a sfinirci, non ci sarà mai traccia di riconciliazione, figuriamoci di perdono.
È per questo che voglio condividere con voi il ricordo di una giornata passata, qualche tempo fa, a Città del Capo, Sudafrica. C’è una riunione in una Community house (una cosa a metà tra Casa del popolo e comitato di quartiere), si lavora su un giorno dell’estate di venti anni prima. Un gigantesco incendio provocato dalla polizia e dagli squadroni della morte del governo di allora, quello dei bianchi razzisti per intenderci. Ci furono decine di morti e oggi in questa stanza ci sono i sopravvissuti. Prendono la parola donne, vecchi e ragazzi di allora. Raccontano quello che hanno subito aiutandosi con grandi disegni fatti da loro. “io ricordo le urla di un uomo dentro la baracca in fiamme” “La paura mi viene ancora oggi a pensare a quella donna incinta, uccisa davanti a me”. Provate a immaginarli, uno dopo l’altro, che si alzano, senza piangere, senza urlare, semplicemente narrano. Come cantastorie. A sentirli venivano i brividi, chiedevano ancora giustizia ma non c’era vendetta nei loro discorsi e, alla fine, applausi per tutti. Era una delle tante puntate di una storia gigantesca, quella di un paese che ha saputo trovare la forza di abbattere uno dei regimi più odiosi senza bagni di sangue e di ricominciare con la forza della verità e della riconciliazione. Gli aguzzini ottenevano il perdono ma solo dopo aver ammesso le colpe davanti alle vittime. Ho pensato tante volte a una cosa così in Italia, non me la ricordo.

giovedì 24 maggio 2007

La monnezza e Pasolini

Che il fuoco faccia impressione lo si sa, dai tempi di Nerone. Più vicino a noi lo avevano capito benissimo i casseurs delle banlieues parigine che, nell’autunno di due anni fa, incendiarono automobili a centinaia; illuminavano il loro rancore di esclusi con una violenza autodistruttiva, davano alle fiamme non le macchine dei ricchi ma quelle sottocasa dei padri e dei fratelli, poi si rivedevano le imprese il giorno dopo in tv e magari stabilivano qual’era stata la banda più brava delle altre. Comunque tennero in scacco polizia e governo per tre settimane. Bruciare a caso costava poco e rendeva molto, sul piano dello spettacolo, erano decine gli inviati delle tv di tutto il mondo cui venivano servite su un piatto d’argento immagini di grande impatto, la tentazione di dire “Parigi a ferro e fuoco” era quasi irresistibile. Tanto che un certo giorno fu lo stesso Ministro degli Esteri a convocare i giornalisti per dire basta, se continuate a soffiare sul fuoco così, l’immagine della Ville Lumiere nel mondo va a farsi benedire. C’era il Natale alle porte e tutto si poteva concedere meno che imbrattare la cartolina della città.
Ora il cambio di scena ci porta a Napoli e ai comuni attorno al Vesuvio. Come nel caso delle banlieues si fa fatica a distinguere torti e ragioni, responsabilità e vie d’uscita. ma anche qui ci fermiamo impressionati a guardare. Questa volta sono le montagne di rifiuti che bruciano, i cassonetti divenuti carcasse che si offrono alle telecamere come dopo un attentato. Ovviamente non tutte le strade saranno così, non tutti respireranno quei veleni e però, anche in questo caso, la cartolina della città e del suo panorama sembra sporcarsi irrimediabilmente, i napoletani farsi male da soli.
C’è un libro che trascrive lezioni di Storia economica all’Universita Statale di Milano. Qualche tempo fa il professor Giulio Sapelli decise di dedicare il corso al capitalismo secondo Pasolini (che fortuna gli studenti di quell’anno), al suo sguardo, tanto facile definire profetico oggi, che trafiggeva un’Italia alle prese con quella che chiamava una modernizzazione senza sviluppo. A un certo punto si parla della napoletanità “Non so se gli esclusi dal potere napoletani preesistessero, così come sono, al potere, o ne siano un effetto. Cioè non so -dice Pasolini- se tutti i poteri che si sono susseguiti a Napoli, così stranamente simili tra loro, siano stati condizionati dalla plebe napoletana o l’abbiano prodotta. Certamente c’è una risposta a questo problema: basta leggere la storia napoletana non da dilettanti”.
Ecco, ci vorrebbe uno così per commentare l’umanità del Vesuvio assediata dall’immondizia, che brucia i detriti di quello che consuma, falò che illuminano eterna rabbia e impotenza. Ma un Pasolini non c’è più, anche questo, forse, è un segno.

giovedì 17 maggio 2007

la rivincita dei pensieri lunghi

Ormai non c’è fine settimana senza un Festival, quello della Filosofia appena concluso a Roma, uno di Storia si apre domani a Gorizia, in mezzo la brulicante Fiera del Libro a Torino. E sono tutte sale strapiene, per una conferenza su ragione e follia, per un discorso sui limiti della tolleranza, per un confronto serrato su laicismo e secolarizzazione. File agli ingressi, discussioni che si protraggono dopo i simposi nei caffè, ore passate a cercare di migliorare se stessi. Nell’Italia tutta si moltiplicano eventi che rispondono ad un unica, sana, corretta voglia: quella di scappare a gambe levate dall’asfissia quotidiana del mondo raccontato in pillole dalla Tv dominante (e non solo). Tutto giusto, tutto encomiabile, con qualche infiocchettatura di troppo se possiamo permetterci, ma insomma l’aria che tira da qualche tempo è quella di ritrovare il gusto della complessità, il piacere anche solo di stare a sentire qualcuno che ne sa di più e che lo racconta senza cronometro alla mano, usando la parola per costruire ragionamenti, per affrontare temi complicati, per illuminare pensieri. Pensieri possibilmente lunghi che non cercano l’assolo, che non vogliono vincere, ma che non hanno paura di lanciarsi oltre i confini (era questo, tra l’altro, il tema del Festival romano e della Fiera torinese).
E però, anche in questo, l’Italia non sembra sfuggire alla tentazione, diciamo così, del paradosso. Mentre si festeggia il ritorno del pensiero complesso nelle piazze e negli auditorium, esso si riduce fino a far perdere totalmente le sue tracce lì dove una società normale vorrebbe vederlo crescere e organizzarsi. Fate voi stessi gli esempi, provate con la politica. Fatto? Ecco allora che appare un enorme palcoscenico in cui i riflettori si accendono e si spengono, tutti gli attori corrono sotto la luce, a inseguire emergenze vere o finte (dipende dall’audience), un affidarsi allo slogan, all’urlo amplificato, al sondaggio come summa suprema del sapere, qui e ora, bussola del dove stiamo andando e perché. E quel che è peggio è che gli uomini e le donne più o meno delegati a fare da classe dirigente fanno di tutto meno che provare a spezzarlo, questo corto circuito dei pensieri corti, che slittano credendo di correre, che girano in tondo, ieri dietro agli sbarchi, l’altro ieri dietro agli ultrà, oggi appresso al tesoretto, stasera al family day, domani chissà.
Colpa certo anche dei mille taccuini e microfoni sempre pronti a registrarli ma che sorpresa sarebbe se un giorno un politico qualunque a domanda qualunque, dopo un bel respiro, rispondesse. “È materia complessa, ho bisogno di tempo, di tempo per pensarci”. Chissà che dopo uno smarrimento collettivo non spuntasse alla fine la cosa giusta da dire e, soprattutto, da fare.

giovedì 10 maggio 2007

Se la guerra ci viene a cercare


A proposito degli italiani e delle missioni di pace. Eravamo uno sparuto drappello di cronisti al seguito dei primi 40 alpini che andavano a sistemarsi a Khost, sulle montagne ai confini con il Pakistan. Era il febbraio di quattro anni fa. Roger King, generale americano allora comandante della missione Enduring Freedom, salutò i soldati italiani, indicò le bellissime cime innevate che circondavano la piana di Kabul e disse: “Le vedete lì in fondo, beh, quella è roba vostra, benvenuti in Afghanistan” e poi a noi aggiunse “questa è una combat mission” e non c’era bisogno di traduzione. Noi scrivemmo e puntuale, a stretto giro d’agenzie, arrivò la precisazione da Roma “Non scherziamo, la nostra è una missione di pace, i nostri ragazzi sono destinati a zone non a rischio e sono ben protetti”. Firmato il ministro della Difesa di allora, Antonio Martino.L’episodio mi torna in mente in questa primavera, a proposito delle preoccupazioni di un altro ministro della Difesa Arturo Parisi che qualche giorno fa, dopo l’ennesima giornata di combattimenti nel sud e nell’ovest dell’Afghanistan, con gli americani che snocciolavano dettagli e cifre dei talebani uccisi e sorvolavano sulle manifestazioni di protesta della popolazione di quei luoghi per i cosiddetti effetti collaterali (decine di civili morti), dettava così alle agenzie “siamo preoccupati per un eventuale coinvolgimento degli italiani in operazioni estranee alla missione votata dal Parlamento”. Già perchè anche questa volta gli italiani ci sono, sono acquartierati ad Herat, città capoluogo di una provincia del paese che dista poco più di cento chilometri dalle zone dove si combatte e anche questa volta trattasi di “missione di pace”, o meglio di “assistenza alla sicurezza” della nascente democrazia afgana. Ora, quanto devono durare i giochi di parole? È vero, le missioni non sono le stesse, quella “Enduring Freedom” a guida americana non è quella “Isaf” a guida Nato, le regole d’ingaggio sono diverse, ogni contingente e ogni paese ha i suoi “caveat”, cioè i limiti autoimposti ai propri soldati e però la guerra non fa tante differenze. Di sicuro non ne fanno i talebani, tutt’altro che morti e sepolti. Semmai potrebbe riproporsi, nelle chiacchiere tra soldati alleati, il vecchio e logoro luogo comune degli italiani abili solo in cucina e in salmeria. Dunque giusta la preoccupazione del ministro Parisi, giusto chiedere un coordinamento tra gli alleati per evitare sovrapposizioni e incoerenze nelle catene di comando ma il problema resta lì, tutto intero, a mano a mano che la primavera avanza. Se la guerra ci viene a cercare, che ne facciamo delle missioni di pace?