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lunedì 16 novembre 2015

Io ero in campagna intanto

 La sera di venerdì mi chiama il capo per andare a Parigi ma non potevo. Cose normali, riposo programmato e piccoli impegni ma importanti, per me. Avrei dovuto rinunciare, siamo in guerra, ma ho deciso di no ed è andata così. I colleghi del mio giornale stanno facendo un gran lavoro, i giornalisti di tutta la Rai lo stesso e io li ho guardati in televisione, ho sfogliato i quotidiani, ho letto i tweet, ho ascoltato i talk show, ho fissato gli occhi sui titoli cubitali che più grandi non si può. Parole definitive che per lo più dicevano, ora basta servono i fatti, bisogna agire, così non si può andare avanti, non vinceranno. Io ero in campagna intanto e la vita passava, protetta dal velo della distanza e del caso. Il racconto di Parigi invece scorreva su binari che purtroppo tutti potevamo intuire, l'ansia e la paura delle prime ore, il silenzio sbigottito di quelle successive, la mattina dopo col dolore, i fiori, le lacrime e le dichiarazioni d'impegno, non ci cambieranno, continueremo a fare le cose che abbiamo sempre fatto, difendiamo la libertà di essere normali. Poi le storie, le foto, i sorrisi spezzati di chi non c'è più e le manifestazioni commoventi nella loro gigantesca sobrietà, Parigi ci ha già confortato così a gennaio dopo Charlie Hebdo. E i vertici, i comunicati congiunti, non saranno uguali agli altri giurano, sperando di non mentire a sè stessi. Dio ci scampi dalle decisioni prese sull'onda dell'emozione e della rabbia ma anche dal momento in cui, lentamente ma inesorabilmente, torneremo ad altro. Fino al prossimo orrore. E qui sta la cosa che volevo dire. Certo non vinceranno loro, perché loro non possono vincere, vogliono solo farci vivere in questo perenne alternarsi di terrore e oblio per avere la conferma che noi questo siamo: un mondo che ai loro occhi non sa morire combattendo ma si fa uccidere senza combattere. Loro sono una terribile minoranza che nulla ha di umano come ha detto Francesco commosso, al telefono, con Lucio Brunelli ma che ha la forza del fanatismo e il vantaggio di avere dovunque come campo di battaglia e chiunque come obiettivo. Noi -ed è questa la cosa difficile da dire oggi- rischiamo di avere solo la forza dell'assuefazione. Il veleno è che ci si abitui a convivere con questa macabra lotteria per cui continueremo a fare le cose di sempre ma qualcuno muore, uno su mille, e noi piangeremo, ci indigneremo e poi ci rassegneremo, fino alla prossima estrazione. Sperando distrattamente di non essere estratti. Questo temo ma è solo un brutto pensiero, no, non può, non deve andare a finire così. 

Ps. Domani torno in fabbrica e riprendo il mio posto tra i raccontatori un tot al minuto. È poca roba lo so ma ognuno deve fare quello che può.

venerdì 4 settembre 2015

Arriverà il tempo

Arriverà il tempo che leggeremo i libri scritti dai giovani siriani che oggi attraversano il mare, camminano sui binari, aspettano in fila, dormono in stazione, si avviano sulle autostrade in carovana, che hanno spinto madri coraggiose oltre il filo spinato e portato vecchi sottobraccio per chilometri di sabbia e di polvere. Saranno i libri che vinceranno premi, diventeranno film, daranno linfa a questo continente, saranno le grandi storie dell'Europa di domani.

mercoledì 22 luglio 2015

La Grecia e l'Europa al tempo dei bancomat



Il luglio della Grecia non è ancora finito ma lo ricorderemo per averlo dovuto raccontare così, attraverso i bancomat. Non è facile e non è giusto raccontare Atene e nessuna altra città puntando le telecamere contro gli sportelli che distribuiscono contante. Perché sono tutti uguali, perché inquadri un bancomat e potresti essere dovunque e da nessuna parte. Eppure è andata così, il mese in cui la Grecia sfida l'Europa e i suoi creditori, vota e dice no e poi è costretta a tornare sui suoi passi, l'abbiamo scandito attraverso le macchine automatiche che danno o non danno denaro. Le file per averne, un poco alla volta. La pazienza, la rabbia contenuta, qualche volta i pianti, di chi improvvisamente ha dovuto fare i conti con la realtà. Così la Grecia è diventata il racconto di chi passava ore, sotto gli occhi del mondo, ad aspettare per avere. E il mondo a dividersi tra chi dice, vedi come finiscono quelli che non pagano i debiti e gli altri, che incitavano a resistere e a protestare.
Il luglio in Grecia era cominciato, è vero, con l'azzardo di questo piccolo paese che si radunava in un referendum per dire no, non possiamo accettare sacrifici che ci stanno ammazzando. Un azzardo del suo giovane premier Alexis Tsipras, l'altro grande protagonista del racconto. Davide che sfida il gigante dei mercati, della finanza, della comunità internazionale e poi si ferma a un passo dal salto nel buio e ammette "ci abbiamo provato, di più non potevamo fare". Tutto avviene nel giro di pochi giorni, con le banche chiuse soprattutto per evitare la fuga di chi il denaro lo aveva lì dentro e voleva portarlo via e diventate invece il simbolo delle porte chiuse in faccia a chi voleva solo ritirare la sua pensione. Così perde la sua battaglia un altro protagonista del racconto di questa estate il ministro delle finanze Yanis Varufakis che l'azzardo avrebbe voluto portarlo fino in fondo. Voleva alzarsi dal tavolo e dire la Grecia non gioca più, non vogliamo più i vostri soldi, faremo da soli. Ma il salto era troppo lungo e il buio troppo pesto anche solo per poterci provare. E la sua testa viene offerta sul vassoio dell'accordo proprio dal suo capo di partito e di governo. Così a metà del mese e del racconto, dove stavolta la protesta e le molotov sono durate lo spazio di un tg, si trova l'intesa e le banche riaprono, la realtà sembra tornare quella ordinaria, faticosa e soprattutto, l'unica possibile.
Ma il finale non è ancora scritto e nessuno sa come andrà a finire.
Solo una cosa sappiamo, che non vorremmo più raccontare una città, un paese, fosse Atene, Berlino o Bruxelles, la Grecia o l'Europa, inquadrando le banche e i bancomat. C'è molto, molto altro da vivere.
(Tg2 20,30 del 21/7/15)

lunedì 13 luglio 2015

Riascoltando il pescatore

Tornavo dal mare in macchina, autoradio. L'ho risentita la canzone di De Andrè, quella dal vivo con l'arrangiamento della PFM, la Premiata Forneria Marconi. Non ricordo esattamente in che anno collaborarono, forse la fine degli anni settanta, fù una tournée e un disco. Fù una sfida, un azzardo, due mondi separati che decisero di incontrarsi. Il cantautore più raffinato e il gruppo pop più ondivago si incrociarono e nessuno avrebbe scommesso sul risultato. Invece. Riascolto la canzone oggi piú di trenta anni dopo, De Andrè canta le strofe, all'ombra dell'ultimo sole s'era assopito un pescatore e aveva un solco lungo in viso come una specie di sorriso e la PFM risponde lalalalallalallala venne alla spiaggia un assassino due occhi grandi da bambino due occhi enormi di paura eran gli specchi di una avventura e ancora il coro lalalalallalallala e così per tutta la canzone. Cioè il miracolo della divisione dei compiti, della consapevolezza dei ruoli, del rispetto pieno di energia che i musicisti pop seppero costruire attorno all'icona del cantautore poeta per definizione, senza paura anzi, indicandogli una strada sorridente e allegra da percorrere. E lui sembra felice di farlo, lo si vede dai video del concerto, che ripropose identico anche qualche anno dopo con la partecipazione dei suoi due figli, lo si intuisce dallo spazio che concede agli assoli di batteria dello straripante Franz Di Cioccio. Fu un esperimento musicale riuscito ma anche qualcosa di più, una sorta di coalizione per andare al potere, intellettuali e popolo.
Oppure niente, forse era era solo nostalgia di qualcosa che oggi non riusciamo più nemmeno a immaginare, per mancanza di materia prima.

giovedì 14 agosto 2014

Giornalisti a Gaza

La notte tra il 28 e il 29 di luglio è stata forse una delle più pesanti per la gente di Gaza. Bombardamenti incessanti dal mare, dal cielo e dai carri armati israeliani. Gli inviati dei giornali e delle televisioni erano quasi tutti concentrati nei pochi alberghi o case in riva al mare, più o meno vicini al porto. Proprio il porto fu bombardato più volte quella notte. E quando senti arrivare il botto fai fatica a distinguere la distanza "chirurgica" che c'è tra la tua stanza nella quale vanno in pezzi solo i vetri della finestra e quella della casa bersaglio che va in macerie cento metri più in là. Così si è lavorato in questi giorni a Gaza, con la possibilità che un razzo partisse all'improvviso dal cortile del palazzo di fianco trasformando l'intera zona in un potenziale obbiettivo dei bombardamenti israeliani. Ma quello che forse vale la pena di sottolineare è che questa volta i giornalisti, per merito e apertura dell'esercito israeliano bisogna riconoscerlo, sono entrati a Gaza in grande numero, a vedere e a raccontare quello che vedevano. Non è la prima e purtroppo forse non sarà l'ultima puntata di questo ciclico esplodere della violenza e delle armi tra israeliani e palestinesi, meglio tra i rispettivi irriducibili estremismi e fondamentalismi, ma stavolta è stato possibile raccontarla in diretta. Questo ha provocato un grande nervosismo soprattutto nel governo israeliano che più volte ha invitato i giornalisti a dire la verità su quello che avevano visto e a farlo una volta usciti da Gaza, liberi cioè dalle pressioni e dalle censure di Hamas. Ed è quello che noi, con tutti i nostri limiti, abbiamo fatto, sia dentro che fuori Gaza. Abbiamo girato, visto, parlato, ascoltato e la distruzione di interi quartieri era impossibile non vederla, la condizione di migliaia di rifugiati, pigiati a dormire in cento dentro una classe scolastica era impossibile non raccontarla. E anche la storia dei razzi, pericolo costante non solo per gli israeliani oltre confine ma anche per gli stessi abitanti di Gaza -più di una volta sono esplosi, come davanti al muro dell'ospedale Shifa, prima ancora di alzarsi in volo- era storia quotidiana dei nostri pezzi. La tattica di Hamas era evidente, lanciava i razzi da qualunque posto e tutti i posti avevano a che fare, nel raggio di qualche metro, con la vita della gente comune. Per questo la discussione sui civili usati come scudi umani ha poco senso, questo era lo scenario. Noi abbiamo visto bombardamenti israeliani abbattere case e lasciare intatti gli edifici vicini, ma abbiamo visto anche villaggi e quartieri rasi al suolo, compresi parchi giochi e giardini zoologici. Di questo abbiamo raccontato, di come l'orrore della guerra sia difficile di nascondere se riusciamo a vederlo coi nostri occhi. Certo potevamo affidarci ai file di qualche agenzia video e mescolarli ai filmati forniti quotidianamente dall'esercito israeliano che mostravano i tunnel scoperti e gli obiettivi centrati dalle bombe laser. Avremmo avuto pezzi "equilibrati" nel minutaggio, nelle ragioni e nei torti, ma sarebbero stati resoconti senza anima e senza la paura che ti prende quando la guerra senti che sta lì e fa male, davvero. Per questo credo che il mestiere dell'inviato valga ancora la pena di tenerlo in piedi, nonostante internet e la crisi mondiale dell'editoria.
E un'ultima cosa voglio dire, al mio direttore generale, quella notte tra il 28 e il 29 luglio, quando bombardavano il porto, i giornalisti della Rai erano là, c'era Lucia di Rainews24 con Lorenzo, c'era Maria della radio, c'era Marilù del Tg1 e Riccardo del Tg3. Tutti ci siamo cercati quella notte per sapere come stavamo e se tutto andava bene. Quella notte li, sembravano davvero una squadra.

Questo post è stato pubblicato il 12 agosto su www.articolo21.org

martedì 6 maggio 2014

La mia 500 e la chiusa del pezzo

La mia Fiat 500 è del 1964, il 10 di marzo ha compiuto cinquant'anni. Non è sempre stata mia, l'ho comperata nel 1994 a Vallelunga, ad una di quelle fiere delle automobili d'annata dove ero capitato per caso. Mi ricordo però quello che mi disse il proprietario di allora, te la vendo ma prenditi l'impegno di portarla fino al duemila. Gli dissi sì e la comperai. La mia 500 è un modello D convertibile, cioè di quelle con la capote in tela che scende fino al motore e con le portiere che si aprono a vento. Il colore è sempre stato il grigio Fiat, più o meno quello delle pattuglie della Guardia di Finanza. Già nel 94 era considerata un'auto d'epoca ma io l'ho usata come auto da battaglia dentro i vicoli del centro storico di Roma. Ha preso tante botte quando la sera tornavo a casa e dovevo cercare parcheggi impossibili ma ha resistito, sempre. Dieci anni dopo ho cambiato quartiere, sono salito a Monteverde e la mia 500 ha avuto un regalo insperato, la nicchia tra i muri di un garage, al coperto. Ha rischiato la rottamazione, per via della benzina rossa che usciva di scena, ma si è subito adattata a quella verde senza problemi. Poi sono arrivati i divieti di circolazione per le auto della sua età e si è offerta di fare da cavia all'installazione di uno dei primi impianti a gas adattati alle sue dimensioni. Così ha continuato ad accompagnarmi in questi anni, sempre meno per la verità, per via che fatica a tenere il minimo nel traffico, preferisce andare verso Maccarese al mare piuttosto che avventurarsi in centro. Preferisce muoversi col caldo e anch'io concordo così che ormai la uso solo con la bella stagione. Due anni fa ho cambiato di nuovo casa, sempre Monteverde, ma non c'è stato più il garage. È tornata in strada e ha passato due inverni piuttosto faticosi tanto che ogni volta a primavera ho dovuto cambiare la batteria per farla ripartire. Sempre ferma sotto casa, tiene il posto che condivide con la Smart che uso per andare al lavoro. Poi mi fermo qui perché la chiusa del pezzo, come ha brillantemente argomentato Luca Sofri in quel di Perugia, non serve e perché la mia 500 me l'hanno portata via stanotte.

Aggiornamento felice e doveroso: un mese dopo i carabinieri di Monte Libretti me l'hanno ritrovata. E adesso è di nuovo a casa.




sabato 28 dicembre 2013

Cortina, New York e il black out di Zaia

Abbiamo scherzato forse anche troppo su Cortina e i lamenti dei ricchi villeggianti per un giorno senza luce. Ma quando il governatore del Veneto Zaia tira fuori in tv, a sostegno dell'idea di una class action contro i responsabili di un "disagio non degno di una società civile", il parallelo con New York che al massimo "ha dovuto subire interruzioni di corrente di poche ore" beh, allora la cosa si fa seria. Lasciamo perdere il calcolo della durata dei black out storici in quella città, basta citare solo l'ultimo, poco più di un anno fa, quando l'uragano Sandy lasciò mezza Manhattan al buio e al freddo per quasi una settimana. Fermiamoci un attimo governatore, a paragonare le reazioni delle due città, anche solo attraverso le dichiarazioni viste in tv. A Cortina ho ascoltato signore in pelliccia e occhiali da sole d'ordinanza raccontare l'inaudito episodio che aveva sconvolto le loro vacanze "i nostri figli venuti per fare un po' di sport e invece che disastro" o commercianti ripetere in coro la litania dell'enorme danno subito. A New York l'anno scorso c'ero e ho visto al quinto giorno senza corrente ragazzi e signore, ricchi e sbandati fare la fila cortesi e sorridenti davanti al generatore della troupe CNN che offriva a turno un po' di ricarica per i cellulari. Cinque minuti a testa e poi avanti un altro, diceva un cartello scritto a pennarello sul generatore. E se facevi domande ti rispondevano che era dura stare al buio ma che i veri disastri erano altrove e soprattutto orgogliosi ti dicevano "noi siamo newyorkesi" e dunque passeremo anche questa.  Quindi governatore Zaia va bene la class action e i risarcimenti danni ma New York per favore lasciamola stare.

domenica 22 dicembre 2013

I quartieri spagnoli e noi

Si discute da tempo sul formato dell'approfondimento in tv, sulle ibridazioni del documentario giornalistico con quello d'autore, sulle ricette cioè per tenere assieme la narrazione della realtà con le seduzioni del racconto più alto, quello che trasfigura il dato di fatto e lascia un segno, emozionale e di riflessione, in chi guarda. Molte le strade intraprese, poche quelle percorse con successo. In Italia si contano sulla punta delle dita, la prima stagione di Riccardo Jacona soprattutto, l'ultima di Domenico Jannaccone per citare due esempi che puntavano molto sulla personalità e sull'empatia provocata dagli autori. In mezzo molti esperimenti, più o meno consapevoli, alla ricerca di quella miscela in grado di raggiungere il bersaglio. Ieri sera (o meglio stamattina sull'ipad) ne ho visto uno che ha centrato l'obiettivo. Si tratta del Tg2 Dossier "Quartieri spagnoli, Italia"  realizzato da Fabio Venditti assieme ai ragazzi dell'associazione "Socialmente Pericolosi" di Napoli. Un viaggio attraverso le ferite dell'Italia che pensiamo di conoscere, anzi diamo ormai per scontate, e che invece riviste attraverso gli occhi, le ingenuità, gli stupori dei nuovi narratori tornano a fare male. L'Aquila dei quattro anni e mezzo dopo quella scossa che provocò piu di trecento morti, Padova con il suo muro anti spacciatori che ha provocato il deserto civile e materiale, l'Emilia che ancora non ha visto un euro pubblico dopo il suo terremoto eppure prova a tirare avanti, Reggio Calabria con le sue opere pubbliche incompiute e in abbandono. Non sono le cose che rivediamo la novità, sono i loro commenti, le loro domande che creano un varco inaspettato. Le fulminanti micro biografie "mi chiamo Mariano De Giovanni, ho 33 anni e tre figli, facevo il parcheggiatore abusivo..." ascoltate dalla loro voce mentre li vediamo camminare tra le macerie della città abruzzese, o intervistare parlamentari fuori Montecitorio provocano la
miscela magica del coinvolgimento. Non ci importa tanto sapere se tutto sia in equilibrio, se i  commenti siano dosati, se il pezzo sia obiettivo. Stiamo dalla loro parte, mentre aspettiamo le nuove strade del giornalismo e del documentario tv. O del suo futuro.

lunedì 4 novembre 2013

Dire che non c'è niente da dire, ma con ritmo

Dai salotti tv agli editoriali, dai tweet ai post, dalle radio ai tg il rumore di questo paese da mesi si ripete come un disco rotto. E non è facile intervenire a tempo, prima che la puntina salti di nuovo. 


sabato 8 giugno 2013

Eravamo noi a Gezi park

Li ho lasciati allegri, che servivano la colazione, che giocavano a pallavolo, che leggevano libri, che dormivano nelle tende anche a mezzogiorno, che alzavano la mano in segno di vittoria, che prendevano appunti, che suonavano la chitarra, che piantavano piccoli alberi, che costruivano barricate, che scrivevano cartelli, che cantavano, che ballavano, che si difendevano gli occhi con maschere da sub e la gola con quelle dei muratori, che organizzavano turni per pulire e per guardarsi intorno, che pregavano, che si baciavano, che bevevano birra. E che ci guardavano fiduciosi. Poi certo c'erano anche i vecchi sindacati, i soliti comunisti, gli immancabili drop out, quelli che per coazione a ripetere vanno dove c'è un po' di rumore per sentirsi vivi ma quelli non sono più il centro delle cose. Il centro sono loro, i ragazzi, quelli che eravamo noi all'epoca di fragole e sangue, con la loro sfrontata e sorridente mancanza di paura per quello che può succedere. E che succederà quando smetteremo di guardarli perché c'è il week end o perché è finito il turno.

venerdì 8 febbraio 2013

Sognando il secondo tempo della Primavera

    La moglie di Chokry Belaid. Mi piacerebbe diventasse lei il prossimo presidente della Tunisia. 

giovedì 4 ottobre 2012

Tutto cambia, niente cambia

Tutto cambia, niente cambia, suvvia qualcosa cambia. Stamattina per esempio, nella nostra solita passeggiata mattutina al parco, non solo sapevamo già come era andata, ma eravamo pieni di dettagli, di commenti, di precedenti, di previsioni, di video integrali, di sintesi, di foto, di battute. Come quella di Michael Moore che dice "ecco quello che succede quando si sceglie John Kerry come allenatore per il dibattito". Ora non sappiamo quanto tutto ciò determinerà il corso delle cose, di sicuro nuvole piene di link, cinquettii multimediali senza fuso orario, direttori mattinieri e ragazzi brillanti hanno circondato la nostra passeggiata. E a momenti mi scappavano via i cani.

martedì 7 febbraio 2012

Di monotonia, mammoni e modello Danimarca



Se la sequenza di battute sui ragazzi italiani e il posto fisso inanellate dai ministri in queste settimane servirà a qualcosa non lo so, quello che so é che troppo spesso nelle discussioni, anche serie, molti citano l'esempio del "modello Danimarca" diciamo a vanvera. Mi é toccato in sorte di andare tre giorni a Copenaghen per il tg a cercare di capire come funziona e quello che ho capito é che trattasi di modello bello e impossibile da tradurre in Italia, almeno di quella contemporanea. Per una serie infinita di ragioni alcune delle quali, in ordine sparso, proverò ad elencare:
1. In Danimarca un ragazzo che studia riceve un sussidio.
2. Quando si laurea va dal suo sindacato e fa domanda per avere un sussidio.
3. Fa la domanda in uffici puliti, colorati e ben illuminati.
4. Un tutor lo segue nella sua ricerca di lavoro.
5. Se non trova lavoro frequenta corsi di formazione.
6. Se trova un lavoro sa che può perderlo dalla sera alla mattina, ma in quel caso torna al sussidio.
7. Il sussidio dura due anni e si aggira attorno alle novemila corone, 1300 euro
8. Per non perdere il sussidio deve accumulare in tre anni l'equivalente di un anno di ore lavorate.
9. E ogni ora lavorata automaticamente si somma alle altre in termini di contributi di pensione.
10. Se alla fine perde il sussidio perché non é stato capace di trovarsi un lavoro, allora diventa "sfigato".
11. Se diventa "sfigato" va al Comune e chiede il sussidio per i poveri, 500 euro al mese.
12. Anche al Comune ci sono dei tutor che comunque provano a farlo rientrare nel giro di prima classe.
13. Se nel frattempo ha un figlio ci sono sussidi anche per lui.
14. Se volete sapere quanto costa tutto questo, costa che tutti quelli che lavorano pagano tasse dal 35% al 65%.
15. Anche sul sussidio che riceve un giovane disoccupato deve pagarci le tasse, tanto per abituarsi da subito all'idea.
Ora ci sarebbero tante altre cose, comprese le ristrettezze della crisi che stanno facendo scricchiolare l'intero sistema di welfare danese, ma su, siate sinceri, in Italia, un sistema così, da dove cominci?

lunedì 23 gennaio 2012

Interesse generale, chi era costui?



Difficile spiegare nei tg e nei giornali i vantaggi che potrebbero derivare dalle liberalizzazioni, molto più semplice dare voce a tutti quelli che le temono, a prescindere. Fin qui tutto chiaro. Compreso il fatto che già usare il termine astratto "liberalizzazioni" a fronte di parole concrete come tassisti, farmacisti, edicolanti crea un evidente squilibrio di comunicazione (questo lo direbbe qualunque manuale per giornalisti, ammesso che servano). Ma questa volta ci troviamo di fronte ad un problema decisamente più grande: quello di comunicare un contenuto "inedito", cioè mai culturalmente veicolato nella società italiana, dalla famiglia alla scuola e dai media meno che mai. Trattasi di identificare prima e spiegare poi che cosa sia questo incognito concetto che taluni professori, e già qui scatta una prima diffidenza, definiscono come "interesse generale". Si perchè prima ancora di entrare nel merito dei provvedimenti varati da questo strano governo, il muro che li rende quasi impermeabili ad ogni comprensione è la mancanza di abitudine dei media a costruire informazione a partire dal punto di vista del bene comune. In altre parole giornali e tv sanno perfettamente dare voce a chi difende un interesse particolare e concreto "senza la mia licenza muoio di fame" ma difficilmente si impegnano a immaginare e spiegare il possibile scenario di cambiamento che potrebbe migliorare la vita di tutta la comunità. Continuando nell'esempio dei tassisti, é facile raccogliere la tesi che "non servono più taxi perché non c'è domanda, vedete siamo fermi per ore", più difficile spiegare che se scendessero le tariffe, se fosse più facile trovarne uno rapidamente, forse molti che oggi prendono la loro macchina per muoversi potrebbero optare anche per il taxi. Ci sarebbe lavoro per più tassisti, meno inquinamento, città più vivibili. Già ma tutto questo é difficile raccontarlo con una dichiarazione più o meno urlata al microfono. Per cui continuiamo ad informare dicendo: attenzione, arrivano le incomprensibili liberalizzazioni ma, a quanto pare, nessuno le vuole.

venerdì 23 dicembre 2011

Ad occhi sgranati nel circo di Twitter


Ormai é quasi un anno e forse ci si può fermare per accennare a qualcosa che rassomigli a un pensiero. É anche tempo di Natale e forse ci si può concedere qualche errore da prima impressione ché siamo tutti più disposti al perdono. Così azzardiamo riflessione, parola grossa, sul modo italiano di invadere twitter, in particolare su quella impaurita frenesia di noi giornalisti di salire sul treno all'ultimo minuto, di scegliere il vagone giusto, di prenotarsi reciprocamente i posti e di chiudere le porte a quelli che stanno ancora cercando il binario. Per capirci l'era twitter della stampa italiana é cominciata quest'anno. Prima del 2011 c'erano i nativi, ragazzi e ragazze che nella pigra indifferenza dei media tradizionali, già cinguettavano seriamente e allegramente con il mondo, scovando reporter di strada e analisti di geopolitica che usavano #hashtag e 140 battute, costruendosi una fluida, viva, cangiante, e forse per questo a volte precipitosa, visione del mondo alternativa. Sento già il ronzio di chi tra i giornalisti storici obietta (tra sé e sé per carità) no guarda, io c'ero già: onore al merito delle mosche bianche ma erano bianche, appunto.
Il problema invece é nato quando una prima pattuglia di penne old fashion ha preso il trenino e si é guardata intorno. Finalmente facce nuove, si saranno detti, ma solo per un poco perché poi il vecchio vizio di spalleggiarsi l'uno l'altro, di fare comunella, di seguirsi con quella sottile perfidia di essere sempre attenti allo spread (che deve restare alto, altissimo) tra seguiti e seguaci ha preso il sopravvento. Allora il vecchio circo con tutti i suoi numeri, i suoi personaggi si é ricostruito. Ci sono i direttori dei grandi giornali che aprono il dibattito, ci sono i direttori che provocano più dibattito dei loro piccoli giornali, ci sono direttori senza più giornali che contano i seguaci, ci sono editorialisti più innamorati del loro tweet che del loro editoriale, ci sono reporter mitraglia da 200 tweet al giorno che poi nessuno legge più i pezzi, ci sono gli specialisti del retweet per far capire che nulla sfugge. Insomma la pattuglia si adatta, si conforma, si specializza, si arrangia, che il mestiere non gli manca. Naturalmente ci sono anche i tantissimi bravi e buoni, sennò che post di Natale sarebbe, quelli che davvero guardano con occhi sgranati la meraviglia, questa possibilità di intercettare e dialogare col mondo che fino a ieri era fantascienza. Ed é un po' la stessa differenza che ho sempre ritrovato tra gli inviati di guerra, quella tra chi, veterano o no, era capace ancora di stupore e chi invece si faceva scudo di aver visto già tutto. Così succede adesso tra i giornalisti esploratori nella meravigliosa jungla di twitter.
E nell'esplorazione si usano vecchi trucchi rimodernati, che un cool touch é d'obbligo in questi casi. Per esempio quello di circondare di complimenti alcuni dei nativi che davvero hanno fatto un gran lavoro (penso alla primavera araba e ai movimenti di #occupy) di contatti, selezione, ricerche, condivisione. Anch'io, giornalista della specie più stigmatizzata, quella dei tg per di più Rai, ho fatto così ma mi sono sempre presentato "ciao sono @angfigo un vecchio reporter di un vecchio tg". E buon Natale.

mercoledì 23 novembre 2011

Anna P. all'epoca di Twitter


Questo pomeriggio, mentre continuano gli scontri attorno a piazza Tahrir e noi, tweet dopo tweet, quasi ne sentiamo il respiro, mi sono ritrovato in una piccola libreria romana a parlare con amici, davanti a un caffè, di Anna Politkowskaja. Gli amici venivano a dirmi di una piccola casa editrice abruzzese (Carlo Spera editore) che sta per pubblicare un libro di Anna, inedito in Italia, i suoi primi scritti sulla Cecenia. E così é venuto spontaneo ripensare al suo modo torrenziale di scrivere, pagine e pagine minuziose di storie e denunce; in appendice al libro sua figlia Vera racconta che Anna scriveva sempre, dovunque lei bambina sentiva il ticchettare della tastiera del computer, anche nella casa di campagna quando si fermavano qualche volta per i fine settimana "tutt'intorno la natura, i boschi e lei in casa a scrivere sul computer.." . il risultato oggi sono i suoi articoli, centinaia, i suoi libri, migliaia di pagine, ricostruzioni, testimonianze, documentazione di quell'unico grande orrore che é stata non solo la guerra di Cecenia ma il tragico affresco della nuova Russia di Putin autoritaria e repressiva eppure alleata di noi Occidente. E però accanto al suo lavoro c'é sempre stato anche, impietoso e codardo, un velo denso di silenzio, reticenze dei giornalisti ufficiali mescolate alle calunnie del regime seminate ad arte, che giorno dopo giorno hanno costruito attorno a lei l'isolamento che alla fine le é stato fatale. Così oggi, il tempo di un caffè in libreria, ci siamo ritrovati a pensare a cosa sarebbe stata la storia di Anna all'epoca di Twitter. Cosa sarebbero stati il suo lavoro, le sue denunce, le sue storie e infine il suo rimanere sola. Forse sarebbe andata diversamente, forse no. Mi piace però immaginare l'onda del cinguettio da Grozny di una come lei. Comunque non avremmo potuto mai dire che non sapevamo.

lunedì 14 novembre 2011

I tre discorsi



Non ci fermiamo mai, tra twitter e spread, tutti siamo lì a fare click e spesso la velocità non aiuta a capire, a volte nemmeno a vedere. Eppure ieri sera abbiamo avuto un primo illuminante esempio del possibile passaggio. Tre discorsi, poco prima di cena, tre italiani hanno parlato, hanno detto cose importanti e drammatiche ma ci hanno anche raccontato di loro e della loro visione del mondo. Uno si è rinchiuso in una stanza e ha fissato la telecamera come una old star che rassicura i suoi fans, il secondo, sguardo gentile ma spesso lontano, ha scandito parole chiare come un professore chiamato in extremis ad aiutarci prima degli esami, il terzo, un padre allarmato ed energico ci ha guardato negli occhi come a dire, ci sono qua io, vi proteggo ma dovete essere voi a cambiare a fare la vostra parte. Ognuno ha detto cose che si possono condividere o no, ma il modo ha detto di più. Non sappiamo dove ci porteranno queste ore convulse ma già il fatto che non ci sia più solo la vecchia star, ma anche un professore e un padre soprattutto, rimette un poco le cose a posto. Forse.



giovedì 3 novembre 2011

Atene, il bluff (riuscito) del referendum



E' durato quarantotto ore il referendum della Grecia, l'azzardo di Papandreou che ha fatto tremare i polsi ai mercati e sbigottito l'Europa messa di fronte al fantasma di una scelta non prevista che poteva travolgere tutto. "Deciderà il popolo greco se accettare o no l'accordo sui sacrifici in cambio degli aiuti per evitare la bancarotta" annuncia due giorni fa il premier greco senza nemmeno avvisare i suoi ministri, facile dire un colpo di teatro tragico visto il paese. Si presenta a Cannes convocato da Francia e Germania che chiedono bruscamente spiegazioni e intanto bloccano l'ultima rata degli aiuti. Torna ad Atene e si ritrova due suoi ministri che si dissociano dall'azzardo. Allora minaccia le dimissioni, poi le smentisce, va in parlamento e dichiara "se passa l'accordo il referendum non serve e l'accordo deve passare -dice all'opposizione- anche con i vostri voti perchè non abbiamo alternative".
Così il referendum greco in realta è stato un bluff, ultima mossa di un premier sempre piu solo, con una maggioranza che perde pezzi e un paese stanco, sfibrato dalla micidiale cura da cavallo che deve accettare tra rabbia e rassegnazione. Domani il parlamento vota l'accordo e la fiducia al suo governo. Può succedere che cada proprio lui, l'uomo dell'azzardo, e si apra la strada ad un governo di unità nazionale che alla fine però dovrà ratificare l'accordo, esattamente quello che voleva Papandreou con il bluff del suo referendum impossibile. (dal Tg2 20,30)

lunedì 24 ottobre 2011

Vecchi appunti (2006) di elogio su Jacona (che sottoscrivo anche oggi)









A proposito della capacità di raccontare di Riccardo Jacona. Ieri il primo dei suoi tre documentari sull’Italia, titolo “case!” poi arriveranno gli altri dedicati a ospedali e tribunali, sempre con il punto esclamativo. Intanto da segnalare il meccanismo di produzione che ribalta la logica delle news e segue contemporaneamente tre plot ma per diversi mesi. Ottiene cosi un doppio risultato, quello di seguire ogni singola storia in un arco temporale lungo, dando spessore e profondità alla dinamica narrativa e di realizzare contemporaneamente tre prodotti facendo economie di scala non indifferenti. Naturalmente in primo piano resta la straordinaria capacità di drammatizzare che fa di Jacona uno dei pochi documentaristi d’autore oggi in circolazione. Talmente riconoscibile e personale il suo stile che non è immaginabile la sua riproduzione come standard e questo forse è il vero limite. Non di Jacona che anzi si gode questa ottima nicchia del mercato quanto perché sarebbe difficile e al fondo indigeribile l’eventuale clonazione della sua esperienza. A volerla fotografare quella che colpisce è l’assoluta programmatica estraneità alla risoluzione dei problemi, quello che interessa J. è l’analisi quasi autoptica, spietata della realtà semmai con una sorta di compiacimento per la contraddizione, in particolare per quella irrisolvibile. È chiaro che in più aggiunge una scrittura schierata emotivamente, assolutamente refrattaria ad ogni ipotesi di governo della realtà, semmai orientata a una televisiva istigazione alla ribellione. Bravo.

lunedì 19 settembre 2011

Elogio del bagno 32

Adesso che la stagione è finita posso dire il nome, piuttosto anonimo peraltro, di quella che considero una piccola metafora dell'Italia che vorrei. Siamo sulla costa laziale, quella di fronte a Roma per la precisione, quella del mare che azzurro proprio non è per definizione, quella de 'na birra e 'n calippo per capirci, quella dei teli bianchi e dei divani al tramonto e degli abusivi che si disegnano da soli per terra il parcheggio riservato, quella che sembra senza speranza insomma, e invece. Ecco il bagno 32, un quadrato di spiaggia libera che a dispetto di un nome burocratico e tristemente evocativo, rassomiglia al sogno di una Italia sobria, silenziosa, sorridente, dunque impossibile. Provo a spiegare. Intanto quando arrivi si vede il mare, non ci sono muri, ingressi, neon, verande che nascondono sale da banchetti nunziali no, tu quando arrivi col tuo ombrellone a tracolla, vedi il mare. E se invece hai solo l'asciugamano c'è un grazioso chiosco in legno dove puoi affitare il necessario se vuoi, non devi, anzi gli ombrelloni del chiosco possono essere piantati solo fino ad un certo punto, non proprio davanti al mare perche lì, appunto, lo spazio è libero, di tutti. Poi ci sono i tavolini davanti al chiosco, che ti siedi a piedi nudi sulla sabbia pulita e fresca. Che idea geniale, niente pedane nè pavimenti, ti siedi a mangiare con i piedi nudi nella sabbia. Sembra facile ma non è così, è un'idea che si regge su un patto, mi siedo perche mi fido, sono certo che nella sabbia non ci sono cartacce, sigarette, lattine o qualunque cosa possa mettermi a disagio. E se arrivi di mattina presto hai la conferma, capisci che questa spiaggia libera è curata, pulita ogni giorno come fosse il giardino di casa. E invece è di tutti, gratuita, ha i bagni lindi e le docce funzionanti. E non ditemi che sono banale, che di cose cosi se ne vedono dovunque perchè sapete di mentire, sapete che il guaio di questo paese è prioprio questo, le cose pubbliche sono considerate cose di nessuno non cose di tutti. E potrei aggiungere che il cerchio magico prevede spiaggia pulita di tutti e tutti che cercano di non sporcare e cosi via in tondo, per i rumori e per il modo di comportanzi. Per questo il mio elogio al bagno 32 non è solo il complimento a Stefano, Gianluca, Carolina, Roberto, Assunta e tutti gli altri ragazzi perchè fanno bene il loro lavoro e sono gentili e scherzano sempre e fanno sempre lo scontrino fiscale; ma perchè aiutano a immaginare una via d'uscita possibile. Non c'è solo l'italia che adesso prende la palla al balzo dell'aumento dell'iva per arrotondare i prezzi di fatture che poi non si sogna di rilasciare, c'è anche un paese che si diverte e sta bene con chi fa bene il proprio lavoro, che guadagna il giusto curando e valorizzando le cose di tutti, il famoso bene comune.
Non è un caso che su quei tavolini ho visto sedersi tranquilli venditori ambulanti e magistrati famosi, alla ricerca di un po' d'ombra per riposarsi davvero e con i piedi nella sabbia pulita.

mercoledì 15 giugno 2011

Non é questione di tasse



Parlano di riforma fiscale e di aliquote come se da questo dipendesse la vita o la morte del governo. Non hanno capito che il vento ha sussurato altro: quest'Italia non vuole pagare meno, vuole un paese diverso.

giovedì 26 maggio 2011

Ci é e ci fa



Il siparietto con Obama sulla dittatura dei giudici di sinistra
finalmente risolve il problema.




Semplificazioni

Provo a scrivere senza post-it o cartoline postali. Lo faccio per ragioni pratiche e perché il tempo passa e qualcosa deve pur cambiare.

sabato 5 febbraio 2011

Esercizi di stile



Quello che segue é l'inizio del reportage del corrispondente della CNN ad Alessandria in Egitto passato al traduttore di Google. Sembra Don DeLillo.

feb 5, 2011 - Aggiornato 0.958 GMT (1758 HKT) Dietro le quinte: Caos in Alessandria da Nic Robertson, CNN Senior International Correspondent Alessandria d'Egitto (CNN) - La più lunga passeggiata è quando non sai dove andrà a finire . La più lunga minuto quando si è preoccupato per quello che sta arrivando. Ad Alessandria, entrambi sono a portata di mano. Duecento metri, che è tutto ciò che ci separava da migliaia di manifestanti cantando. Erano stati in marcia per tutto il pomeriggio ad ascoltare le chiamate di solidarietà. Ora era notte, la pioggia cadeva e sbandati uscivano verso di noi. Mentre camminavamo verso di loro, al buio, a bocca aperta, sidestreets cavernosi sono stati stillicidio minaccioso, armati di bastone-uomini. linee elettriche improvvisate afflosciò tra i condomini di invecchiamento. Il nostro piano era arrivare alla folla, raccontano la storia e uscire, la nostra piccola telecamera nascosta alla vista. In primo luogo ci stavano chiamando, quindi afferrare, chiedendo passaporti. Gli uomini con le bacchette ci stavano sciamando. Litigare tra di loro. Gli uomini di scorta noi ci dicevano di stare tranquilli di non preoccuparsi. La rabbia è in aumento. I nostri passaporti sono stati prelevati, controllati e riconsegnato. In quel momento che la confusione ha cominciato. Chi eravamo, perché erano lì. Stranieri. Nei giorni scorsi, i media di stato ha sollevato paranoia a passo di febbre. (...) Siamo stati guidati sulle strade buie posti di blocco presidiati passato in parte dai ragazzi di calcio-playing, in parte da soldati e in parte da quello che sembrava lo stesso bastone che brandisce, predoni uomini affollano intorno a noi. Altri di loro sono stati chiusura in ora. Il piccolo branco intorno a noi era gonfiore e ribollente. Ognuno che passa è stato redatto al dramma che stava diventando la nostra inquisizione. Tutti volevano la parola, tutti cercano di mettersi in gioco, di schierarsi, prendere in carico, prendere una decisione...

ps. Così, tanto per ricominciare quest’anno, almeno con un post.

giovedì 16 dicembre 2010

Saviano, Bartleby e gli scarponi


Dove finisce la rabbia e comincia la violenza. Sul filo sottile la discussione dilaga e stavolta senza argini e disparità. Scrive Saviano dalle colonne di Repubblica come scriveva Pasolini dal Corriere della Sera ma a rispondergli questa volta non ci sono solo ciclostili e volantini ma lettere come quelle di un ragazzo del centro sociale Bartleby occupato di Bologna che in un lampo diventano controeditoriali. Fanno la videocronaca i telegiornali ma sono cento e cento i filmati, come quello del poliziotto che con gli scarponi d'ordinanza passeggia su schiena e faccia di uno studente, pronti a smentire ogni tentativo di semplificazione. Questa è la novità della discussione di oggi, non tanto il tema che i ragazzi a ragione sentono come inedito, e gli altri, anche loro a ragione, come ricordo sbiadito da trasformare in monito. La novità sta semmai nella possibilità infinita di raccontare e di documentare immediatamente, con tutti i vantaggi e i rischi che comporta. Anche quello di pensare che siccome si è visto tutto di persona si è anche capito tutto, definitivamente.

domenica 28 novembre 2010

Aspettando Wikileaks

Siamo in tante, formichine sparse in tutte le redazioni italiane, a cercare in questi minuti almeno qualche briciola di quello che è stato definito l'11 settembre della diplomazia mondiale. Le agenzie si tuffano sui "party selvaggi di Berlusconi", i siti on line titolano in rosso e stiamo tutti solo copiando il titoletto scritto in piccolo, sotto la sua fotografia in piccolo, l'ultimo sulla destra, nella copertina del Der Spiegel, o meglio della copia del settimanale già in vendita a Basilea. Altro per ora non riusciamo a sapere. Ora quello che non vogliamo vedere invece è che mentre noi media italiani siamo qui per terra sotto il tavolo di Wikileaks ad aspettare le briciole, cinque giornali stanno comodamente seduti a tavola a frugare tra le leccornie (ammesso che tali siano): Il Guardian, il New York Times, Le Monde, El Pais e il Der Spiegel appunto. Come dire Washington, Londra, Parigi, Madrid e Berlino. E Roma non c'è, non c'è un giornale, un tg italiano. In fondo in questo la scelta di Wikileaks è stata chiara. Siamo un paese minore, inutile nasconderlo, nonostante gli strilli sul complotto, al massimo siamo quelli in basso a destra, nella copertina dello Spiegel. E scusate adesso torno alle agenzie, hai visto mai uscisse qualcosa sull'Italia.

martedì 16 novembre 2010

Gli elenchi di Fazio


Si può dire tutto del programma Vieni via con me tranne che non sia stato un esercizio di stile riuscito. Non era facile costruire una trasmissione sull'idea degli elenchi, antica come i nostri ricordi di liceo, iperfrequentata da geni assoluti come Gaber Gaber, utilizzata da onesti scrittori come Hornby, abusata fino alle filastrocche su facebook. La grandezza di Fabio Fazio e dei suoi autori è stata quella di usarla per svelare con illuminante sobrietà non solo lo stato delle cose italiane ma anche forza e debolezza degli italiani che quegli elenchi recitavano. Così, ad esempio, la ragazza ventenne, albanese e italiana insieme, fulmina in un colpo, con la forza del tempo che passa, le nostre urlate polemiche sull'immigrazione sempre tarate su un eterno presente. Gli elenchi di Fini e Bersani hanno illuminato invece quanta strada c'è da fare ancora. Poi c'è il fuori elenco Saviano. La sua capacita di racconto è magnetica, puoi amarlo o odiarlo ma difficilmente riesci a staccarti dai suoi occhi, dalle sue mani, dalle sue parole. Anche lo spaesamento di un comico di razza come Paolo Rossi, per molti il punto debole della puntata di ieri, non fa che confermare la novità di tutto quello che c'era stato prima e che ci sarebbe stato dopo di lui. Fino al lusso di Toni Servillo, volto icona, sintesi del meglio che il racconto italiano oggi può offrire di sè al mondo, che entra in scena solo per sussurrare vieni via con me. Andiamo allora che forse, almeno in tv, una strada si intravede.

domenica 24 ottobre 2010

La monnezza, le mamme e i tric e trac


La cosa nel merito è terribilmente seria e solo uno poteva dire che in dieci giorni tutto si risolve. Ma qui ci occupiamo di dettagli. C'è qualcosa di ineluttabilmente napoletano nella fantasia con la quale a Terzigno sono riusciti a dividersi la stessa piazza. Il giorno, dedicato ai genitori che vogliono proteggere la salute dei loro bambini e la notte, con le battaglie degli ultrà incappucciati contro la polizia in assetto anti sommossa. La ciliegina poi, i fuochi d'artificio per fare guerriglia ad uso e consumo delle tv. Sia detto con tutta la simpatia e il tifo per le mamme che difendono i loro piccoli, nemmeno a Hollywood c'erano arrivati.

martedì 21 settembre 2010

Auguri ad Atene


Un brindisi all'Acropoli che resiste all'arrivo dei barbari camionisti. Hanno ricevuto le licenze quarant'anni fa dal colonnello Papadopoulos, durante la giunta militare e se le passano tra loro come fossero una casta. La loro protesta non é la stessa dei lavoratori che a primavera riempivano piazza Syntagma per dire che la crisi finanziaria la dovevano pagare quelli che l'avevano provocata. I loro cortei, sui TIR coi clacson assordanti, difendono solo un ingiusto privilegio e ricordano quelli dei camionisti cileni che boicottarono
il governo di Allende e aprirono la strada al golpe militare.

sabato 21 agosto 2010

Grazie a tutti. Soprattutto a Pasolini.


Premessa, facendo clic su ogni città dovrebbe "partire il relativo servizio". Dovrebbe.

Adesso che il nostro tratto della lunga strada di sabbia è finito non ci resta che ringraziare. A Sperlonga gli amici americani e inglesi di Maria Clara che da cinquant’anni si godono il paese sapendo di averne visti passare tanti, “anche Cohn-Bendit è stato qui un anno, a pensare” ci hanno detto, con l’ironia che solo l’età può dare. A Napoli Rosaria, alla quale chiediamo scusa per aver tagliato la frase in cui diceva che gli scugnizzi non ci sono più, perché il giorno dopo li abbiamo trovati, sia pure rovinati dalla tv. A Ischia la signora Teresa, per la sua risata quando ricorda i maiali che sbucarono sotto i piedi di Pasolini e ammette che erano quelli del suocero ma anche per gli spaghetti allo scoglio che più scoglio non si può. Partendo per Capri i due netturbini del Molo Beverello che si davano la voce uno sull’altro per leggere la frase di Pasolini sull’invasione dei turisti “sacrileghi”. Uno dei due non capiva il significato della parola e l’altro gli ha spiegato “sacrileghi, che fanno i sacrifici, si sacrificano per andare a Capri!” e noi non abbiamo avuto il coraggio di controbattere, perché in fondo è la spiegazione giusta. Poi la signora Giovannina che quando siamo entrati a casa sua era in desabillè e ci ha chiesto un secondo per rimettersi in ordine. Ad Amalfi il professor Luiz e sua moglie Tatiana che non ci hanno pensato due volte a leggere Pasolini e che ancora adesso cercano di vedere i servizi su internet ma ci scrivono che il sito della RAI è un gran casino e non gli possiamo dare torto. A Ravello Sara e Francesca che ci hanno fatto da intermediarie con Vincenzo il giardiniere ex attore pasoliniano che sembrava diffidente ma era solo timido. A Maratea Dora ex operaia dei lanifici ormai chiusi che pur avendo perso il lavoro non si è persa d'animo, Guglielmo e sua moglie Diana, che avevano tutto il diritto di diffidare di chi gli chiedeva notizie dei disastri fatti al sud dalla loro famiglia di industriali del nord e che invece ci hanno accolto con garbo e semplicità come fanno tutti i giorni con tutti, nel loro piccolo ritrovo sul mare. A Siracusa Milori e la sua amica, restauratrici giapponesi che parlano benissimo l’italiano (pensate a restauratori italiani che parlano benissimo il giapponese e poi ne riparliamo), Paola che lavora al Jolly e che ci ha indirizzato verso il fiume dei papiri e poi Corrado il barcaiolo che con i suoi fratelli combatte una battaglia contro l’abbandono e l’oblio di quelle meraviglie. A Porto Palo i pescatori e i ragazzi che ci hanno accolto come fossimo amici da sempre. E infine tutti quelli che abbiamo incontrato a Cutro, gli anziani del centro sociale, il sindaco, i vecchi militanti, la famiglia del partigiano Rosario che ci hanno permesso di raccontare il vero finale della storia del paese dei banditi.
E soprattutto Giorgio, il pastore rumeno che ha quattrocentocinquanta pecore da pascolare e non ha tempo per queste nostre scemenze.
Poi siamo tornati in fabbrica. Qui ringraziamo tutti quelli che hanno lavorato con noi, dal direttore Mario che ha avuto una grande idea allo specializzato Franco che ha guidato per non sappiamo quanti chilometri, dai montatori Marco, Marta e Lorenzo che hanno tradotto in due minuti quello che forse volevamo dire, a Claudio e Carlo, Maria Grazia e Franco che hanno condiviso prima e dopo di noi la lunga strada di sabbia, Tommaso, Cinzia e gli altri che ci hanno seguito negli ultimi metri, dalla saletta alla messa in onda.
Un piccolo grande regalo quello che ci avete fatto tutti e che speriamo di avervi in parte restituito.
Non ho usato il plurale a caso perché, nonostante non lo abbia consultato, so che posso firmare questo biglietto con Andrea, che ha letto Pasolini con me prima di cominciare a girare ogni sequenza. E poi, se vuole, smentisce.

domenica 20 giugno 2010

Vatican style


C'è qualcosa di francamente sgradevole nell'attacco dell'Osservatore Romano a Saramago post-mortem. Soprattutto nei giorni del cardinale Sepe e dintorni.